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L’ispirazione soffia dall’Artico sulle mie tele.
Molto prima dell’avvento dell’energia elettrica e dei mezzi a motore, la lunga notte artica si allungava sulle terre nordiche senza incontrare ostacoli. Nonostante il progresso, appena fuori dai pochi centri abitati che si incontrano nella tundra, l’inverno resta incontrastato, il ghiaccio e il cielo stellato le uniche presenze. Al disgelo, i ghiacci si ritirano e svelano la vita, così come la morte. La tundra fiorisce, i corpi congelati marciscono e la nutrono.
Forse perché caratterizzato da questa forte dicotomia, spalmata su tempi che paiono eterni, il succedersi delle stagioni è, nelle regioni artiche, sempre un fatto drammatico, quanto affascinante. A causa di questo stacco violento, le culture nordiche esprimono le sfumature dell’immanente, concentrandosi sulla descrizione del presente, più che sulla ricerca di una ragione ontologica dell’essere o di un destino. La piccola comunità, questo inverno, questa estate, è tutto ciò di cui ci si debba preoccupare.

Ed è questa rassegnazione al presente che mi piace descrivere, riappacificandomi con il tempo e liberandomi dalle tensioni legate alle aspettative sul futuro. Il Ciclo Nordico nasce per soddisfare questa necessità e, strato dopo strato, deposita, insieme al colore, filamenti e trame, non proprio come un racconto, ma come intuizione spirituale di un pantheon fatto di animali dalle folte pellicce, uccelli dal becco forte e vermi voraci.

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