
Parliamo e ci vestiamo da cromofobici
Quando si parla di una persona e la si definisce “colorita”, cosa vi viene in mente? Di solito, è un modo benevolo di criticare una condotta frivola, un po’ sopra le righe, addirittura volgare. Il linguaggio colorito, infatti, è quello infarcito di volgarità e un ambiente colorito è quello in cui ci si lascia andare a comportamenti spontanei, non mediati dalle rigide regole della società chic.
Non è qualcosa su cui riflettiamo spesso, ma la fama del colore, nel nostro linguaggio e nella cultura occidentale in generale, non è quasi mai positiva e, se lo è, lo diventa solo in contrapposizione ad una regola aurea che ad alcuni può andare stretta.
Il sistema, la retta vita, la civiltà, la purezza, la classe, l’eleganza sono tutti concetti che, almeno in occidente, rigettano il colore, tanto che si parla di cromofobia della cultura occidentale.
Il colore, sia nella filosofia estetica che nell’immaginario collettivo, rappresenta due ordini di concetti.
Il primo, legato al primitivo e al tribale, ci parla di un caos non ancora dominato dalla ragione e non conformato alla civiltà progredita.
Il secondo, legato al rifiuto della cultura dominante, assume connotati addirittura eversivi, quando non folli. E dove c’è follia, troviamo anche la femminilità: una donna che sfoggia colori sgargianti è certamente più tollerata di un uomo che volesse indossare un cappotto giallo su un completo verde lime. A meno che, ovvio, non sia gay, e quindi, come la donna, emarginato e/o emarginabile.

Cromofobia: una storia antica
Da dove viene questa accezione ghettizzata del colore? Ne possiamo trovare traccia molto lontano nel tempo, radicata nella filosofia classica. Intanto, color ha, in latino, la stessa radice di celare, perché, come un cosmetico, è fatto per nascondere, ma già Aristotele, per il quale il colore era pharmakon, ossia droga, relega il colore alla cosmesi, scrivendo nella Poetica:
Se si versano a caso dei bei colori, non si ottiene lo stesso piacere che se si disegna in bianco un’immagine.
Di questa citazione mi piace quel a caso che secondo me la dice lunga.
Che il bello sia nella forma e nel tratto del disegno, non nei colori, è una convinzione che è sopravvissuta ai secoli. Sappiamo oggi che l’architettura e la scultura greco romana erano assai più colorate di come le ammiriamo oggi, ma, nell’iperuranio delle idee pure di bellezza e arte, il colore non è mai entrato.
Prendete il dibattito medievale sul colore, che vede contrapposti fior fior di teologi intorno al suo significato divino. Bernardo di Chiaravalle, fondatore dell’ordine cistercense, fu tra i più valorosi e accaniti cromofobici del suo tempo, ed impose all’interno e all’esterno degli edifici religiosi, il candido rigore che pretendeva per le anime. Trovò sicuramente degli oppositori e, infine, il gotico inondò le navate delle luci policrome delle vetrate, eppure la bellezza e la purezza non hanno mai smesso di essere associate al bianco o all’assenza di colore.

Secoli dopo, nella Critica del Giudizio Kant ci spiega, di nuovo, che i colori che ravvivano il disegno sono attraenti per i sensi, ma non lo rendono degno dell’intuizione del bello. Il bello è dominio dell’intelletto e, non solo fa a meno del colore, ne può anche essere distolto, perché i colori ci influenzano in modo quasi patologico.
Arriviamo così al XIX secolo e alla critica dell’arte di Charles Blanc – non vi pare un nome significativo per un cromofobico? A più riprese Blanc affronta la dicotomia tra forma e colore, sancendo l’assoluta superiorità della prima sul secondo.Questo passaggio è particolarmente significativo
L’unione del disegno e del colore è necessaria per generare la pittura esattamente come è necessaria l’unione dell’uomo e della donna per generare l’umanità, ma il disegno deve conservare il suo predominio sul colore. Altrimenti la pittura precipita verso la sua rovina: cadrà ad opera del colore proprio come l’umanità cadde ad opera di Eva.
Eccolo: il colore è caduta, e quindi femmina. Non solo, il colore è anche poco evoluto, come ci spiega in un altro passaggio, in cui affronta il tema del linguaggio e afferma che gli uomini, all’apice della piramide, usano il linguaggio verbale, gli animali usano i versi e la gestualità, mentre agli esseri completamente inanimati, ossia ai minerali, non resta che il colore. Come se le gemme fossero colorata, in quanto incapaci di parlare.
Il colore, dunque, è la caratteristica peculiare delle forme inferiori nella natura, mentre il disegno diventa il mezzo di espressione, tanto più dominante, quanto più in alto saliamo nella scala dell’essere.
La Cromofobia ai giorni nostri: cinema, arte e vita quotidiana
A questo punto, c’è da chiedersi come stiano le cose ai giorni nostri. All’inizio, ho fatto due esempi che ci raccontano di come la diffidenza verso i colori sia ancora radicata nel modo di esprimerci e di apparire. Anche quando non indossiamo una divisa, siamo molto meno inclini a utilizzare palette di colore personalizzate sui nostri gusti di quanto pensiamo. L’accettazione nella società passa anche da un prudente minimalismo, che ci fa trovare d’accordo su una serie di dogmi, come quello che il nero addosso sia elegante, sempre e comunque, e il bianco e il beige siano ideali per qualsiasi tipo di arredamento.
Il colore viene apprezzato nella sua accezione esotica, come un alieno interessante, che ci fa sognare di civiltà lontane o di travolgenti momenti di follia – positiva solo quando, appunto, momentanea.

Un esempio? Quanti film vi vengono in mente che usino il colore per rappresentare una realtà alterata? Come Paura e Delirio a Las Vegas (colore come pharmakon, di nuovo), ne potrei citare moltissimi. Ma anche senza tornare sulla associazione diretta fra droga e colore, ci sono registi che praticamente si sono specializzati nel colore per poter narrare le loro storie con un registro che potremmo definire “realismo magico”, contestualizzando trame assurde in un ambiente più che propizio. Wes Anderson, per dirne uno: chi non ha apprezzato I Tanenbaum e Gran Budapest Hotel anche dal punto di vista cromatico probabilmente non ha colto uno degli aspetti portanti.
Il colore, insomma, è una caduta (la droga) o una fuga (il realismo magico), ma, in entrambi i casi, non fa parte del quotidiano, del normale e, in senso lato, neppure del giusto.

Henri Matisse
Passiamo all’arte contemporanea. Intanto, la rivalsa del colore sulla forma , ad esempio nell’impressionismo e nell’espressionismo, rappresenta una vera e, inizialmente, osteggiata rottura. I movimenti artistici di quel periodo erano considerati primitivi, non solo da chi li disprezzava, ma persino da chi li promulgava: il fauvismo e tutti i movimenti primitivisti si facevano portatori di un linguaggio che ricercava nel colore proprio un ritorno ad una spontaneità che si contrapponeva ai rigidi dettami della Accademie. Insomma, il colore era rottura e regressione, da qualunque parte la si voleva guardare. E dove è finito, oggi, tutto quel colore?

Piero Manzoni – Achrome
Facendo un giro in qualsiasi galleria d’arte, soprattutto le più chic, vi renderete conto che lo spazio è quasi interamente occupato da opere materiche, spogliate di colore: penso alle opere di Fontana, Manzoni, Castellani e discepoli. Quando il colore compare, assoluto ed esibito, è spesso pura provocazione.
Ma torniamo a noi, alla vita di tutti i giorni, ai nostri gusti personali e alla nostra percezione. Leggendo questo articolo, quanti di voi si sono accorti di essere inconsciamente cromofobici?
Personalmente, non conosco più che una manciata, fra uomini e donne, che potrei definire sicuramente affetti da una forma incurabile di cromofobia. Eppure, persino io, che credo di avere un’altissima tolleranza al colore, finisco con il conformarmi.

Enrico Castellani
Cromofobia e conformismo
Conformismo e Cromofobia vanno a braccetto. Le divise ci piacciono, anche se fingiamo che non vogliamo che ci vengano imposte. Quello che è tragico, però, non è voler essere accettati: l’accettazione è una necessità dell’uomo e non ha senso sbandierare un presuntuoso solipsismo. L’aspetto veramente inquietante è voler essere accettati DA TUTTI. Pretendiamo di essere universalmente accolti, di piacere o comunque di non risultare sgradevoli, a prima vista, mai e a nessuno.
Forse per questo, accettiamo di buon grado il dress code, pure per andare in giardino a potare la siepe o per prendere un caffè con gli amici. Non parlo, ovviamente, di quelle basilari regole di decenza che dovrebbero essere sempre seguite per rispetto del prossimo e del contesto: è ovvio che non andrò in ufficio in prendisole e infradito, ma mi chiedo spesso come mai non mi sia mai comprata un completo verde ottanio, che per altro mi starebbe benissimo, soprattutto abbinato ad una borsa magenta.
In parte, non l’ho mai fatto perché, a meno che non sia l’anno in cui va di moda il verde ottanio, non troverò in nessun negozio un completo di quel colore, ma sarei disonesta se dicessi che questa conformità dell’offerta di mercato (una non-offerta, a ben vedere) mi abbia creato un reale disagio.
Almeno fino adesso.
Colore come evoluzione
Cosa è successo? Al contrario di quanto abbiamo detto sul suo carattere primitivo, credo che nella mia vita il colore rappresenti un’evoluzione. Si tratta di una parte della personalità che è cresciuta, si è formata una propria griglia di “mi piace” e “non mi piace” ed ha acquisito consapevolezza. Il nero, il bianco e tutte le sfumature intermedie continueranno a piacermi, ma come colori alternativi ad altri, e non come assenza di colore.
In sostanza, credo che accettare la nostra personalissima preferenza in fatto di colore sia un passo avanti verso il dominio della ragione sull’inconscio, e non una regressione infantile, come spesso viene interpretata. Arrenderci alla cromofobia ci fa fare scelte comode e rassicuranti, e farci stare comodi è tipico dell’istinto di sopravvivenza, non dell’intelletto.
Forse non saranno le scelte personali a cambiare 2000 anni di cultura innestati sulla cromofobia, ma credo che, nel nostro piccolo, valga la pena affrontare l’argomento con maggiore consapevolezza, per recuperare un ingrediente in più, che può fare davvero la differenza nella quotidiana esperienza della realtà e nel piacere che possiamo trarne.

David Batchelor
Note e ringraziamenti
Moltissimo di questo articolo si deve a Cromofobia di David Batchelor e al suggerimento di una lettrice che mi ha proposto l’argomento attraverso il sondaggio che ho indetto a luglio 2021. Per questo ringrazio tutti i miei lettori: siete capaci di stimolare in me il piacere per la ricerca, l’approfondimento e la condivisione.
Grazie dell’articolo. Sono un cromofobico da tempo. Sono un melanofobico. Ho paura del nero. Da tempo cercavo riferimenti alla mia paura. Vedo con piacere che si incomincia a parlarne.
Interessante, Eugenio. Nel mio articolo parto dell’argomento in senso culturale, ma dell’aspetto patologico non si tratta quasi da nessuna parte. Hai delle fonti da condividere?
Purtroppo non ho riferimenti in proposito. Credo che il tuo approccio sia molto valido. Mi ha dato spunti molto interessanti. Sarebbe molto bello approfondire l’argomento. Ho anche ordinato il libro di David Batchelor.
Sono sicura che lo troverai interessante, fammi sapere.
Grazie per questa fonte di spunti da approfondire.
In psicanalisi si dice “dipende dalle quantità”
Ecco il confine tra fobia e semplice distinzione emozionale e di gusto.
Il tutto bianco in architettura può risultare salubre quando si parla di città tra l’azzurro del cielo e del mare. Dove la calce, tra l’altro dal potere disinfettante, fa da padrona.
Se lo stesso bianco viene continuamente riproposto può divenire incubo in una camera di ospedale dove il paziente allettato può vedere solo il soffitto ed un margine perimetrale di parete.
Fare un distinguo sulle quantità e sui luoghi diventa fondamentale.
Così come prendere un esercizio visuale a se stante ha un valore relativo.
Esiste un emozione nel nero e nel bianco (che non si potrebbero definire colori ma assenza o presenza di luce) così come in altri colori.
Ognuno risponde ad un istinto personale. La moda non c’entra, o comunque c’entra poco.
L’eleganza un’altra storia ancora. E lì rientra il concetto di qualità.
Grazie quindi per le riflessioni. Bellissima potentissima storia del colore, che tanto ci condiziona. Chissà come vivono le emozioni chi non può distinguere le onde dello spettro solare, i daltonici?
Saluti cari
Grazie della lettura Arianna!
Credo che la quantità che hai citato abbia molto a che vedere con la rinuncia. Mi spiego: dosare il colore non è sempre un compito facile, principalmente in arte. Mentre è abbastanza facile distinguere un disegno ben fatto e proporzionato, da una figura sproporzionata, con il colore tutto entra in un ambito più sensibile fatto di gusto, occasione, contesto e, appunto, misura. Meno colore impieghiamo, più semplici sono i criteri che dobbiamo considerare per decidere tra “giusto” e “sbagliato”. Piacere a tutti è più facile, se si rinuncia al colore. Il problema, però, è che non si soddisfa il nostro gusto personale, per lo meno non a pieno, rinunciando ad un piacere. Insomma, si ritorna un po’ alla cromofobia per conformismo.
Il tuo esempio sul bianco, che io considero uno dei colori, anche se è acromatico, mi è piaciuto molto e mi ha fatto pensare: potrebbe valere per altri colori. Penso ad esempio al rosso, che può accendere di passione un vestito, ma nessuno tollererebbe un intero paesaggio rosso. Continuerò a ragionarci.
Grazie di nuovo!
Da allora mi perdo nelle tavolozze del Pantone, nei campioni dei cataloghi di tappezzieri e arredatori, nelle opzioni cromatiche di qualsiasi prodotto abbia intenzione di comprare. Tempo fa, sul “Post”, c’era un test per capire se avevi tratti autistici: due figure non geometriche e due colori da associare, più o meno, non ricordo perfettamente.
Io ero risultata nella percentuale minima dei soggetti Asperger che avevano scelto istintivamente l’immagine a sinistra. Ma avevo notato che la forma non era stata presa neanche in considerazione. Avevo visto solo i colori.
Per il 99% della mia vita mi vesto svogliata e anonima, evito gli specchi e vorrei immergermi in acque miracolose per cambiare quasi tutto di me. Ma sempre, comunque, metto abiti e accessori colorati. Il nero, che dovrebbe rassicurarmi, non mi offre alcun rifugio. Ho sempre abitato camere e case colorate (verde, arancio, rosa), adoro le carte da parati e rifuggo le pareti bianche o color avorio. I colori arredano, parlano, rivelano, illuminano, raramente mentono. E io sono una gran chiacchierona.
Grazie per questo bellissimo contributo.
Quando ho letto “Il nero, che dovrebbe rassicurarmi, non mi offre alcun rifugio” ho capito esattamente cosa intendessi. Sono essenziale nelle mie scelte pratiche, per la casa e per gli abiti, ma ho bisogno di esercitare delle scelte che mi diano piacere, non tanto per un senso estetico da rispettare, ma per la pura esperienza, che spesso è legata al colore.
Grazie a te della lettura e di avermi lasciato questo commento: mi ci trovo perfettamente e quasi mi stupisco.
Io invece sono affamata di colori e non mi curo di quel che i tristi cromofobi pensano
Ciao Roberta,
questa è una buona regola e vale per tutto.
Interessante che tu ti definisca “affamata di colori”, vale anche per me, ma solo ultimamente sto ragionando su cosa potrebbe significare. In un certo senso, credo sia una conquista.
Grazie Paola,
per questo approfondimento, così ricco di spunti da eccedere ogni aspettativa.
Leggerò anch’io i testi consigliati nel commento qui sopra, che senz’altro mi aiuteranno ad approfondire.
Grazie!
Grazie a te Chiara! Ho fatto tesoro del tuo suggerimento e non sarà l’unico articolo ispirato all’argomento.
Sull’argomento ho letto le riflessioni di Falcinelli (Cromorama) e Henri Pastoreau, storico del colore.
Di professione faccio il colorist (video), quindi bianco e nero e colori sono alla base del mio lavoro. Indubbiamente al b/n si assegna ancora oggi un certo “rigore morale” quasi ovunque. Però nell’utilizzo (video) del colore le distanze tra Occidente e resto del mondo si fanno più marcate… In ogni caso thread super stimolante!
Grazie Davide, ho anche io in biblioteca Falcinelli e Pastureau, oltre ad una serie di altre pubblicazioni più o meno illustri (alcune decisamente leggere e facete) sull’argomento “colore”. Mi affascina molto il tema legato al video, e devo dire che in Chromophobia di Batchelor ho trovato diversi riferimenti interessanti legati al cinema. A questo punto, mi piacerebbe trovare qualcosa sull’argomento al di fuori della cultura occidentale: cina, india, africa…