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Sonia Delaunay: vivere nei colori

Sonia Delaunay: vivere nei colori

Arte, pittura, pattern design, artigianato, moda… da dove cominciare a parlare di Sonia Delaunay?

Sonia Terk, sposata Delaunay, è una tra le personalità del ventesimo secolo che trovo più ispiranti per il gusto di oggi: non solo è stata un’eccelsa pittrice, ma ha saputo dare lo statuto di arte a ciò che un tempo era visto come semplice artigianato; non solo ha prodotto decine di dipinti, ma ha realizzato anche innovativi abiti e creazioni per la casa, sempre rimanendo fedele alla propria vocazione artistica. Per lei il colore non era semplicemente qualcosa da ammirare sulla parete di un museo, ma una vibrazione costante dentro la quale avvolgersi e vivere. Viveva nei colori infatti, Sonia: in essi vedeva racchiusi non soltanto stimoli visivi ma anche sonori e tattili. Per lei, il colore era il veicolo per recuperare le sensazioni e i suoni delle molte parti d’Europa dove si è trovata a vivere.

Sonia Delaunay, vivere a colori, storia del pattern design

Il viaggio di Sonia Delanaunay, a partire dall’Ucraina.

Sonia nasce a Odessa, una grande città dell’attuale Ucraina, nel 1885. Trascorre poi l’infanzia in un piccolo villaggio ma mostra presto un talento artistico fuori del comune; per questo i suoi genitori decidono di darle un’educazione internazionale. Studia così a Pietroburgo, ma a diciott’anni è già in Germania a perfezionarsi nel disegno; poco più che ventenne arriva a Parigi, la capitale artistica dell’epoca, dove si innamora dell’arte di Gaugin e Van Gogh e se ne fa ispirare. Nel 1910 sposa il francese Robert Delaunay, anche lui artista, intraprendendo al suo fianco un cammino non solo d’amore, ma anche di ricerca. 

All’inizio del ventesimo secolo, l’arte spesso si accompagna alla scienza. Sia Robert che Sonia amano profondamente i colori e studiano insieme le rifrazioni della luce per individuare tinte sempre più vibranti. I due sposi aderiscono a un movimento artistico chiamato cubismo orfico, contraddistinto da un’attenzione al colore e alla geometria accompagnati però da un’aspirazione dinamica che lo apparenta con il più conosciuto futurismo. 

Sonia Delaunay, vivere a colori, storia del pattern design

Dalla pittura alla moda

Il viaggio della vita di Sonia non si svolge solo tra i paesi più artisticamente attivi d’Europa, ma anche tra i grandi cambiamenti sociali e i drammi storici del secolo. Durante la prima guerra mondiale, trentenne, vive in Spagna dipingendo ed esponendo senza sosta; ma con la rivoluzione russa del 1917 le sue entrate familiari sono in crisi e lei ha un disperato bisogno di soldi. È così che inizia a cercare un lavoro più redditizio della pittura e approda a quello che fino ad allora sembrava puro artigianato: la creazione di linee d’abbigliamento. Ma quando si è artisti, lo si è qualunque sia il supporto utilizzato, e così i vestiti di Sonia entrano nella storia del design come vere opere d’arte. Il suo atelier di Madrid veste le signore alla moda ma anche le attrici e le danzatrici dei Ballet Russes.

Sonia Delaunay, vivere a colori, storia del pattern design

Arte e design femministi

Dopo la prima guerra mondiale la donna smette di essere l’angelo del focolare: il dramma che ha portato milioni di uomini al fronte ha aperto alle loro mogli le porte delle fabbriche, dove hanno indossato per la prima volta i pantaloni e si sono rese conto di essere in grado di supportare da sole l’economia dei loro Paesi. Così le donne europee degli anni ‘20, quelle che Sonia Delaunay veste con passione, desiderano mettersi al centro della scena e trovano negli abiti moderni la via per esprimere le loro aspirazioni. Quando nel ‘21 Sonia torna a Parigi, il mondo del design le è entrato dentro e non vuole più lasciarlo: disegna abiti ma anche tessuti d’arredo e persino automobili.

Sonia è ormai famosa, ma non come meriterebbe. E il motivo è semplice: è una donna. Anche se il femminismo ha alzato la testa dopo la Grande Guerra, i passi da fare sono ancora molti. Così lei lotta per il riconoscimento delle donne artiste, prima messe troppo spesso da parte, e nel 1964 riesce finalmente a ottenere una propria retrospettiva al celeberrimo museo del Louvre, la prima dedicata a una donna. Certo, la mostra non è sua esclusiva, essendo dedicata anche al marito: in ogni caso, i due ottengono pari spazio e dignità.

Sonia Delaunay, vivere a colori, storia del pattern design

Le opere di Sonia Delaunay

Sonia Delaunay è ricordata per diversi aspetti, primo tra tutti la capacità di rinnovare l’arte del tessuto e dell’arazzo prendendo spunto dalla pittura. La corrente artistica di cui faceva parte, l’orfismo, si orientava alla ricerca della geometria creando opere di puro colore: ebbene, perché questa novità doveva fermarsi solo alle tele? Trasportando la geometria e la cura delle tinte nei tessuti, l’artista ucraina ha aperto gli occhi dei parigini sulla possibilità di indossare l’arte e di tappezzarne la propria casa. Di Delaunay è rimasto famoso anche l’atelier da cui uscivano abiti “simultanei”: moderni, futuristi, dal taglio semplice e squadrato eppure intrisi di colore, come una continuazione delle sue tele. 

Nel suo libro L’influenza della pittura sul mondo, Sonia spiega che ogni colore a noi visibile è in realtà composto da una miriade di altre tinte, che riunite danno luogo a quella che noi osserviamo. Ma se queste tinte fossero scisse attraverso un prisma potrebbero mostrare allo stesso tempo il loro sottile legame e la loro ricca diversità. Ecco perché l’accostamento di tanti colori per lei non era semplice estetica, ma si basava su una ricerca dei fondamenti essenziali della visione.

Sonia Delaunay nella sua lunga vita (ben 95 anni quasi interamente dedicati all’arte) ha avuto modo di dire la sua in tanti modi: disegnando abiti, tessuti e mobili, certo, ma anche coltivando la pittura ed esponendo opere astratte. Ha collaborato inoltre con molti artisti, dall’amico poeta Blaise Cendrars del quale illustrò un libro fino al dadaista Tristan Tzara con cui realizzò costumi e abiti-poesia. La convivenza di pratiche tanto diverse l’ha fatta entrare nei musei, nei teatri e nelle case: “Amo la creazione più della vita” scrisse “e sento di dover esprimere me stessa prima di scomparire”.

Sonia Delaunay, vivere a colori, storia del pattern design

Come ammirare la sua arte: mostre e libri

Le opere di Sonia Delaunay sono state esposte in gallerie prestigiose: dal Louvre di Parigi alla Tate Gallery di Londra.

Il Musée d’Art Moderne de Paris le ha dedicato una mostra nel 2015, di cui è possibile ammirare alcuni “spezzoni” in questa pagina dedicata.

Fino a giugno 2022 chi avesse la possibilità di fare un viaggio in Danimarca potrà ammirare un’ampia selezione delle sue opere al Louisiana Museum of Modern Art di Humlebæk. In Italia al momento non sono presenti delle mostre dell’artista, ma nel 2021 per diversi mesi le è stata dedicata un’esposizione a Torino, nella galleria Elena Salamon. Speriamo che le sue opere tornino presto a transitare per il nostro Paese!

Per ultima cosa, vorrei segnalare un bel libro per bambini: Sonia Delaunay – una vita a colori. Si tratta di un volume illustrato, edito da FANTATRAC, adatto ai bambini delle elementari: vi si racconta la personalità dell’artista con l’intento di spronare i piccoli a sperimentare col colore.

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L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

Quando i portoghesi arrivarono in Brasile nel XVI secolo, rimasero subito affascinati dai preziosi e coloratissimi ornamenti delle popolazioni locali: tanto che alcuni dei loro re chiesero espressamente di portare a corte copricapi di piume.
Noi, da occidentali, possiamo apprezzare la bellezza dei colori e la varietà degli ornamenti, ma purtroppo manchiamo della cosa più importante: la comprensione del loro significato.

L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

L’arte plumaria è una tecnica diffusa in molte popolazioni indigene americane, ma non solo: consiste nel creare accessori per l’abbigliamento e ornamenti utilizzando piume di uccelli.

È probabile che tutti abbiate visto le corone di piume che indossano gli indiani del Nordamerica in illustrazioni e film western, e forse avete anche in casa un “acchiappasogni” sospeso, con i suoi intrecci di corda e piume, comprato in qualche mercatino etnico.

Questi e pochi altri sono i modi in cui noi occidentali riusciamo a recepire l’arte delle piume, ma in realtà essa è molto più complessa e più ricca di quanto potremmo immaginare.

Tra le popolazioni che hanno fatto dell’arte plumaria il centro della loro estetica spiccano, in particolare, gli indigeni del Brasile. Per loro le piume, con le loro forme e colori, sono un vero e proprio alfabeto e gli accessori di vestiario che creano servono a comunicare messaggi precisi.

arte plumaria del brasile: comunicare a colori

L’arte plumaria in Brasile

Quando i portoghesi arrivarono in Brasile nel XVI secolo, rimasero subito affascinati dai preziosi e coloratissimi ornamenti delle popolazioni locali.

Le popolazioni del Brasile vivevano in un mondo estremamente colorato: il verde della foresta, le tinte accese dei fiori e, ultime ma non ultime, le straordinarie varietà degli uccelli tropicali che cantavano tra i rami.  Le loro piume, spesso, restavano a terra e venivano raccolte. Con esse, si riportava il colore intenso della foresta su quasi ogni oggetto del villaggio: pettini, coprispalla, collane, diademi… col tempo questo tipo di arte ebbe tanta presa sulle popolazioni da spingerle ad allevare tucani e ara, in modo da avere sempre a disposizione le loro piume.

arte plumaria del brasile: comunicare a colori

Colorati come uccelli

Il popolo dei Kayapò ama tanto le piume da utilizzarle non solo negli accessori, ma direttamente sul corpo: le piccole e pregiate piume bianche dell’avvoltoio reale vengono intrecciate tra i capelli nelle giornate di festa. I Bororo allevano gli uccelli e, non contenti dei loro colori naturalmente accesi e potenti, usano sfregare la pelle dei volatili con sostanze irritanti per far crescere le nuove piume con tinte ancora più varie.

arte plumaria del brasile: comunicare a colori

Il significato degli ornamenti: comunicazione a colori

Noi, da occidentali, possiamo apprezzare la bellezza dei colori e la varietà degli ornamenti, ma purtroppo manchiamo della cosa più importante: la comprensione del loro significato. Sì, perché per i brasiliani le piume non sono semplici accessori, ma un vero e proprio strumento di comunicazione.

Con le piume possono rivelare chi sono, a quale famiglia o clan appartengono, se sono sposati, se sono sacerdoti o laici, se sono ricchi o poveri. Alcuni copricapi servono invece per la caccia, come strumento per confondersi nella foresta o come richiamo per gli uccelli. Gli oggetti di cui gli amerindi si circondano sono, quindi, un coloratissimo alfabeto tutto da leggere. 

Particolarmente interessanti sono, in popolazioni come Kayapo-Xikrin, gli ornamenti festivi dei capivillaggio: la loro forma circolare ricorda occhi dei quali le piume rappresentano le ciglia; la loro forma ricorda anche quella del villaggio, le cui capanne sono disposte in cerchio e di cui loro rappresentano idealmente il centro. I colori del copricapo non sono disposti casualmente, ma ognuno ha un significato specifico: l’azzurro rappresenta la piazza centrale del villaggio, il bianco la foresta che lo circonda, e così via.

Le popolazioni brasiliane, tradizionalmente, non posseggono scrittura ma, come hanno notato gli antropologi, riescono a rendere scrittura ogni cosa che li circonda. L’arte è un modo di “scrivere il mondo” dando a ogni elemento naturale un significato preciso e che riesce anche ad evocare il piano spirituale.

arte plumaria del brasile: comunicare a colori

Il “progresso” minaccia l’arte delle piume

Come aveva notato già Levi Strauss nel suo celebre Tristi tropici, le popolazioni indigene del Sudamerica stanno vivendo una profonda crisi culturale e sociale. Il motivo è proprio quello che noi chiamiamo progresso: l’avanzamento delle coltivazioni e dell’industria comporta la distruzione dell’habitat tradizionale e la conversione forzata ai modi di vivere occidentali. Pochi sono i villaggi rimasti e i giovani tendono a lasciarli, trasferendosi in zone “occidentalizzate” per diventare operai o braccianti. 

Il FUNAI (ente nazionale brasiliano per la protezione degli Indios) ha sempre voluto proporre una soluzione intermedia tra la distruzione definitiva dei villaggi e la loro conservazione, tentando di mantenere in vita le antiche tradizioni pur convertendo gli indios ai modi di vita occidentali. Questo, purtroppo, è impossibile. Le tradizioni degli indios, così come la loro arte plumaria, sono tutt’uno con l’ambiente della foresta: se essa ha lasciato il posto ai campi, tutto ciò su cui si basa la vita delle popolazioni non ha più ragion d’essere.

La tecnica di intreccio delle piume può continuare, incoraggiata da sovvenzioni economiche di vario tipo ma, come è già accaduto nell’America del Nord, quando si va a perdere una civiltà si distrugge anche il senso più profondo di un’arte.

Mara Chaves Altan arte plumaria

Arte e design con le piume in Occidente

Alcuni artisti che non provengono dal Sudamerica hanno avvertito il fascino della loro arte plumaria e se ne sono appropriati, facendone un modo d’espressione: è il caso di Mara Chaves Altan, creatrice di stupende maschere con le piume nate da un lungo studio e da un profondo dialogo interiore con l’arte “primitiva”. Chaves, brasiliana, ha iniziato a creare maschere negli anni ‘70 con l’intento di riportare in vita l’arte, già all’epoca perduta, degli indigeni Kayapo. «Una piuma è un uccello e un uccello è un cielo» ha raccontato di recente ai giornalisti «Il mio lavoro nasce dalla natura e si serve di essa per esprimere la mia immaginazione». Anche questa artista contemporanea, insomma, sottolinea l’impossibilità di separare l’arte delle piume dal contesto naturale in cui sono nate: il materiale porta con sé l’eco della foresta amazzonica che l’ha originato.

In Occidente, le piume naturali lasciano spesso il posto a quelle artificiali, prodotte industrialmente. Non sono pochi gli artisti, i designer e gli stilisti che utilizzano questi materiali, che pur nella loro essenza plastica sono in grado di ricordare o addirittura amplificare la leggerezza delle piume vere.

Nelle sfilate di moda relative alla collezione autunno-inverno 2022-23 alcuni giovani stilisti italiani si sono distinti per il loro utilizzo delle piume artificiali: in tinte pastello e cucite in gran massa su maniche o addirittura cappelli, le piume della maison A.C.9 piacciono parecchio alla generazione Z!

Allo stesso tempo prende piede, tra coloro che hanno una buona manualità e vogliono sperimentarsi in un hobby artistico, la moda di dipingere sulle piume servendosi di acrilici e pennellino. Su internet sono disponibili diversi esempi e tutorial: la destinazione finale di questi lavori è il decoro della casa in stile Boho Chic.

Mara Chaves Altan arte plumaria

Arte primitiva e legame con la Natura

Nella varietà delle esperienze artistiche primitive e primitiviste, sacre o dissacrate che siano, il filo conduttore è la comunicazione con la natura e il rispetto per i suoi ritmi vitali. Trovo nell’arte cosiddetta primitiva una forza che ad altre forme di espressione a volte sembra venire meno: è la forza della Terra che si esprime in modo organico e viscerale, puro e immediato, vero e “animale”, nei prodotti culturali umani.

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Land art: l’arte della, nella, con la terra

Land art: l’arte della, nella, con la terra

La land art o earth art nasce negli Stati Uniti alla fine degli anni ‘60 e si trasforma presto in una corrente internazionale. Il nome stato coniato da un film del 1969 di Gerry Schum, intitolato proprio Land Art, che documentava i lavori dei primi esponenti della nuova disciplina artistica.

Land art, l’impronta effimera dell’uomo

La land art è arte fatta con – e nella – natura: abbandonati i confini della tela e della scultura e uscendo dalla cornice stessa del museo, le opere artistiche iniziano a essere composte direttamente nel paesaggio, in formato macroscopico e con l’utilizzo di materiali ed elementi naturali. L’idea è che l’artista lasci sulla terra una propria impronta, spesso effimera come lo è il paesaggio, il quale continuamente muta sotto la spinta degli agenti atmosferici. In questo modo l’uomo riconosce se stesso come parte della terra ma, allo stesso tempo, ammette la propria piccolezza.

LAND ART l'arte che si fa con la natura: storia di un genere

Spiral Jetty: fragilità e forza della land art

I primi artisti della land art esploravano territori che li affascinavano particolarmente e raccoglievano sul posto materiali, prevalentemente rami e rocce, creando con essi composizioni perfettamente integrate nell’ambiente. Nel 1970, Robert Smithson aggiunge alla spontaneità iniziale del movimento una forte componente di pianificazione, creando la sua opera più famosa e impegnativa: Spiral Jetty. Si tratta di una enorme spirale creata sulle rive del Grande Lago Salato dello Utah e composta da cristalli di sale, sabbia e rocce basaltiche. L’idea originale era di creare una spirale che incorniciasse una piccola isola artificiale, ma poi fu realizzata una figura più semplice.

Spiral Jetty, che è ancora oggi un’attrazione turistica molto frequentata, ha dovuto affrontare come ogni opera di land art diversi pericoli: primo, l’intenzione di alcuni amministratori locali di cancellarla per destinare il terreno ad altri usi; secondo, l’innalzamento del livello dell’acqua del Lago Salato, che per alcuni decenni ha sommerso completamente la spirale. La storia di Spiral Jetty illustra la forza e la fragilità della land art in cui le opere, completamente in balìa degli elementi naturali o della rapacità umana, sono destinate a rimanere documentate più che altro dal loro ricordo fotografico o filmato. Allo stesso tempo la loro grandezza, che le rende visibili da molto lontano e persino in volo, le rende in grado di trasformare la percezione del paesaggio e anche, auspicabilmente, di proteggerlo dalle mire economiche della civiltà industriale.

Land Art: il Cretto di Burri

Evoluzione della land art

Man mano che la corrente cresceva, gli artisti di land art iniziavano a interagire con il paesaggio in modo sempre più personale, anche aggiungendo materiali non presenti in loco. Ad esempio, l’opera del ‘77 Lighting field di Walter De Maria era composta da 400 aste in acciaio piantate nel terreno per attirare i fulmini. Sulla stessa linea sono i Padiglioni di Dan Graham, costruiti dopo il 1978, che invitano i visitatori di parchi e giardini a camminare dentro grandi strutture in vetro.

L’abitudine di portare in contesti paesaggistici materiali estranei creando con essi opere gigantesche porta fino a Christo, artista bulgaro divenuto celeberrimo per i suoi “impacchettamenti”: ha iniziato nel 1961 avvolgendo con ampi teli in plastica dei barili di petrolio, fino a rivestire addirittura la scogliera di Little Bay in Australia e l’Arco di Trionfo di Parigi. Ma l’idea di ricoprire con un materiale “importato” costruzioni naturali o umane era già venuta ad Alberto Burri nel 1968, quando rivestì con del cemento le rovine del paese di Gibellina, distrutto dal terremoto del Belice, creando una delle più grandi opere di land art in Italia.

Oggi si considerano come appartenenti alla corrente della land art anche opere d’arte apparentemente più tradizionali, come sculture realizzate in materiali vari, ma inserite dialetticamente nel paesaggio che le ospita.

Arte all’aperto = land art?

La land art è un tipo peculiare di arte site specific, una locuzione che indica quelle opere create appositamente per un luogo. Ha un grandissimo fascino e un altrettanto grande potenziale di attrazione turistica: per questo la denominazione viene sfruttata, a volte, per il suo potenziale commerciale. Perché un’opera sia inserita a pieno titolo nella corrente artistica della land art non deve soltanto trovarsi in mezzo al paesaggio, ma deve prendere ispirazione da esso e rapportarvisi in un modo nuovo e speciale. Ecco perché un lavoro di land art può essere anche una scultura, ma molto più spesso è una installazione: l’intento non è mettere nel paesaggio un’opera da ammirare ma costruire l’opera nel e con il paesaggio. Per questo tale forma d’arte, nata più di cinquant’anni fa, è ancora così rivoluzionaria.

Parchi dedicati alla land art in Italia

Oltre alla già citata opera di Burri, nel nostro Paese esistono diversi musei a cielo aperto che ospitano opere immerse nella natura. Possono tutte essere inserite nel genere land art? Forse no, ma hanno comunque un legame molto forte con la natura e il paesaggio che le ospita, quindi ho voluto farne una carrellata, da Nord a Sud. Alcune le ho visitate, altre ancora non le conosco, e quindi questa lista è anche una pagina di appunti per possibili viaggi.

LAND ART l'arte che si fa con la natura: storia di un genere

Arte Sella e Respirart – Trentino Alto Adige

Il Trentino Alto-Adige, una regione che deve gran parte della sua economia al rapporto tra gli abitanti e la natura montana, è stato tra i pionieri della land art in Italia. Arte Sella, un percorso tra sessanta opere immerse nella natura della Valsugana, esiste fin dal 1968: sono esposte en plen air opere di artisti come Giuliano Mauri o Michelangelo Pistoletto. 

Respirart, uno tra i luoghi d’arte più alti al mondo, propone invece ai visitatori un percorso immersivo e meditativo tra opere in materiali naturali commissionate ad artisti italiani ed internazionali come Patrizia Giambi e Hidetoshi Nagasawa.

Oasi Zegna – Piemonte

A poca distanza dal paese di Trivero, dal 2007 la fondazione Zegna promuove e ospita installazioni permanenti di land art. Nell’Oasi Zegna è possibile ammirare installazioni site specific come le Banderuole colorate di Daniel Buren, l’orologio a vapore progettato da Roman Signer o i Telepati di Stefano Arienti. Al termine del percorso proposto si giunge a un padiglione in vetro e acciaio, realizzato da Dan Graham, che riflette allo sguardo degli spettatori i colori della natura nelle sue diverse stagioni.

Rossini Art Site – Lombardia

A Briosco, non lontano da Monza, dagli anni ‘50 il mecenate Alberto Rossini ha deciso di ospitare nel suo parco le opere degli scultori emergenti in grado di superare il “vecchio” stile figurativo. I dieci ettari del parco sono diventati così un museo a cielo aperto, ricco di sculture provenienti dall’Italia e dall’estero.

LAND ART l'arte che si fa con la natura: storia di un genere

Il Giardino dei Tarocchi – Toscana

Nei pressi di Capalbio, immerso nella natura della Maremma, si trova il Giardino dei Tarocchi, il capolavoro di Niki de Saint Phalle. La sua costruzione è iniziata nel 1979 ed è proseguita per  molti anni. Solo nel 1998 il giardino ha aperto al pubblico.
L’artista ha creato strutture monumentali, esplorabili e vivibili, a partire da scarti di latterizio, pietre, maioliche e cemento. La fragilità dell’opera impone continui restauri.

La casa degli artisti del Furlo – Marche

Questa “casa” è un ritrovo irrinunciabile per gli artisti italiani che lavorano con la land art: promuove il concetto di arte sostenibile attraverso residenze creative e mostre che ogni anno arricchiscono e animano il grande parco della residenza.

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Il giardino dei mostro di Bomanzo – Lazio

Questa “casa” è un ritrovo irrinunciabile per gli artisti italiani che lavorano con la land art: promuove il concetto di arte sostenibile attraverso residenze creative e mostre che ogni anno arricchiscono e animano il grande parco della residenza.

Le Pietre sonore e il Giardino fantastico – Sardegna

Nel borgo di San Sperate, non lontano da Cagliari, si possono incontrare oltre a splendidi murales tante sculture e installazioni d’arte. Spicca, tra queste, un giardino di megaliti realizzato da Pinuccio Sciola, ideatore di sculture dette Pietre Sonore, che sono presenti qui ma in passato hanno fatto il giro dei musei di tutto il mondo. Poco lontano si può visitare il Giardino fantastico di Fiorenzo Pilia, una collezione di opere realizzate con materiali di recupero in pieno dialogo con la natura.

Il Parco internazionale della scultura – Calabria

A pochi passi dal centro di Catanzaro, questo parco di venti ettari accoglie le sculture di alcuni tra i più noti artisti internazionali,  da Daniel Buren a Jan Fabre, da Antony Gormley a Mimmo Paladino. Si tratta di una tra le più ricche collezioni di arte scultorea all’aperto in Italia.

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Heitor Dos Prazeres e il samba a colori

Heitor Dos Prazeres e il samba a colori

Eu sou carioca boêmio e sambista, meu sangue é de artistas, não posso negar.

Questa storia è l’incipit di una storia più grande, anzi, di molte storie, e quindi racchiude in sé tutti gli ingredienti più saporiti: passione, dolore, miseria, musica, arte, colore, carne, vita e morte. È la storia di un personaggio che è in sé il manifesto di un’epoca, l’anello di congiunzione tra due ere drammaticamente distinte, eppure non così diverse.

Heitor dos Prazeres, samba, musica e arte del pittore primitivista brasiliano

Il Brasile alla fine del XIX secolo: l’abolizione della schiavitù

Con queste premesse, capite bene che è difficile individuare il punto di partenza, quindi ne ho scelto uno ufficiale e altisonante, che possa darci l’impressione (attenzione, solo l’impressione) di uno spartiacque definitivo. Siamo nel 1888, a Rio de Janeiro, allora capitale del Brasile: la Lei Áurea del 13 di maggio ha finalmente decretato la fine della schiavitù.

Heitor dos Prazeres, samba, musica e arte del pittore primitivista brasiliano

Il problema con l’abolizione è che cancella la schiavitù, ma non gli schiavi. I nuovi liberi saranno pure liberi, ma hanno poco e niente per vivere. A Rio de Janeiro, vengono messi a disposizione delle “casas de cômodos” intorno alla famosa Praça 11 de Juhno, nel nuovo centro città, ricavato da una zona un tempo pantanosa. In queste case si affollano gli ex africani, ex schiavi e nuovi cittadini brasiliani.

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Praça 11, dove il samba e la favela hanno inizio

Agli schiavi liberati di Praça11 si uniscono i soldati sopravvissuti alla guerra con il Paraguay e a quella che è stata chiamata la Guerra dos canudos, un tragico conflitto tra lo stato Brasiliano e una autoproclamata repubblica sorta nel nord del paese, ad opera di un mistico, metà profeta di Cristo e metà socialista.  

Lo spazio non era poi molto e alle abitazioni già costruite se ne aggiunsero altre, sempre più numerose e sempre più povere, che, una volta occupata tutta la pianura, dovettero arrampicarsi lungo le pendici dei monti. La collina così gremita fu battezzata, proprio dai superstiti della Guerra dos canudos, Morro da Favela, in ricordo della collina che sovrastava la loro libera città-repubblica nel nord. Ironico e profetico: ancora oggi, il nome Favela designa le baraccopoli in tutto il mondo.

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Heitor doz Prazeres e la musica

Non sono passati neppure 10 anni dall’abolizione della schiavitù, quando Heitor dos Prazeres viene al mondo in una famiglia povera e numerosa, figlio di un mercenario un po’ musicista e di una sarta. Rimane orfano presto, a soli 7 anni, e già lavora con quello che trova: distribuisce giornali, scarica merci, esegue piccole commissioni. Heitor va anche a scuola, qualche volta, ma non impara mai a leggere e a scrivere. Da vecchio dirà che non non si era mai sforzato, perché a lui interessavano solo i colori, ma andiamo con ordine.

Heitor è povero, orfano, completamente analfabeta, ma ha uno zio musicista. A 12 anni gli regala il suo primo cavaquinho e lui già suonava molto bene lo strumento di suo padre, il clarinetto. Immaginate già il finale, vero? La musica salva il piccolo orfano che, grazie all’intervento del deus ex machina in forma di zio sambista, trova la passione, la salvezza e la notorietà. Heitor non diventa solo un buon musicista, ma l’anima del samba tradizionale carioca. La sua discografia è sconfinata, i suoi pezzi fondano un genere che aveva appena iniziato a prendere piede e lo fa uscire dai ghetti neri della Favela. A lui si deve anche la nascita di Portela, una delle più blasonate scuole di samba del Brasile, quella il cui inno è tutt’oggi lo spirito stesso del carnevale.

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Heitor dos Prazeres e la pittura

Già così è una bella storia, ma Heitor ha troppa passione in corpo per limitarsi alla musica.  Dirà di se stesso che il suo nome, dos Prazeres, “dei piaceri”, lo descrive come pieno di piacere e amore per il suo popolo, per quella moltitudine gremita e tragica che abita Praça 11, per la carne stessa dell’umanità.

Heitor dos Prazeres, samba, musica e arte del pittore primitivista brasiliano

Dagli anni 30, soprattutto dopo la morte della moglie, Heitor dipinge con grande trasporto scene tratte dalla vita quotidiana di quel popolo che gli scorre nelle vene. Sono scene primitiviste e naif, che ritrae a memoria perché, dice lui, non ha bisogno di modelli da copiare: ogni persona, ogni gesto, ogni  momento che descrive è in lui. Musica e samba sono sempre presenti: i personaggi dei suoi quadri sembrano danzare anche quando sono intenti a lavorare, coltivare, passeggiare, e lui li ritrae tutti a testa alta, con lo sguardo rivolto al cielo.

Heitor dos Prazeres, samba, musica e arte del pittore primitivista brasiliano

Esiste questo breve documentario del 1965 dove è possibile ascoltarlo mentre parla della sua pittura e suona il suo samba. Non l’ho trovato sottotitolato, ma vi consiglio di guardare almeno qualche minuto, per farvi contagiare da quello spirito profondamente triste e leggero, che sprigiona immenso amore. Indubbiamente, questa è l’anima del samba, e un po’ di tutta l’arte: una tragedia a colori.  

Heitor muore nel 1966, a 68 anni.

Note:

La Guerra dos canudos è stata raccontata dal premio nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa, nel suo “La guerra della fine del mondo”.

Heitor dos Prazeres, samba, musica e arte del pittore primitivista brasiliano
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che cosa è la cromoestesia: il color e la sinestesia

Un verde può essere davvero acido e l’arancio può avere il profumo dei mandarini o dei fiori di campo. Non è solo poesia: stiamo parlando di cromestesia, una particolare capacità sensoriale. Chi la prova riesce a sentire il suono o il gusto dei colori, associa cioè in modo automatico, intuitivo e involontario un dato visivo a uno proveniente da altri sensi. 

È molto comune anche  l’inverso, ossia associare ad uno stato d’animo o ad un concetto astratto un colore preciso, e non solo per pura associazione di idee, ma proprio come se si trattasse di una sensazione fisica. Ad esempio, febbraio è viola ed io ho rinunciato ad acquistare un’agenda che me lo proponeva in celeste, perché mi avrebbe confuso le idee. Per di più, nella stessa agenda ottobre era marrone, bravi, come le castagne, ma ottobre è blu, il marrone semmai è agosto: vi rendete conto della confusione? 

Che cosa è la Cromoestesia?

La cromestesia è il sottotipo “colorato” di una condizione medica chiamata sinestesia. Non si tratta di una malattia, bensì di una particolare conformazione neurologica: in chi è affetto da sinestesia le parti del cervello preposte ai sensi comunicano tra loro in maniera del tutto particolare. Ecco che allora è possibile sentire il gusto di un colore o ascoltarne il suono. La sinestesia “naturale” è una particolarità molto rara, che interessa tra lo 0,05% ed il 4% della popolazione mondiale; può essere anche indotta artificialmente, come effetto collaterale di determinati farmaci o droghe (ad esempio l’LSD).

La cromoestesia nell’arte

Uscendo dall’ambito scientifico, capiamo subito quanto la cromestesia possa dare stimoli estetici dirompenti in chi osserva o crea opere d’arte. Per un artista cromestetico i colori assumono un tono emotivo e una concretezza assoluti e le sue opere ne saranno inevitabilmente influenzate. Anche se la maggior parte di noi non potrà percepire i colori sulla tela come li “sente” un creatore cromestetico, è però sicuro che parte dell’emozione originaria trapelerà dal quadro e riuscirà a contagiare anche gli spettatori. 

Artisti con il dono della cromestesia

Sarete curiosi di sapere se, tra gli artisti famosi degli ultimi secoli, ce ne sia stato qualcuno con il dono della cromestesia! La risposta è sì, e alcuni nomi famosi devono certamente parte del loro successo a uno straordinario feeling con il colore e la musica. Vediamone alcuni.

Vincent Van Gogh (1853-1890)

Chi non ha mai provato fascino e stupore per i vibranti colori di Van Gogh, i quali ancor oggi suscitano in noi forti emozioni? In anni recenti, l’associazione americana di sinestesia (ASA) ha analizzato gli scritti e le lettere del famoso pittore per determinare se avesse percezioni di tipo sinestetico: ne è emerso che effettivamente Van Gogh aveva il dono della cromestesia. Nelle lettere al fratello Theo, Vincent descrive i colori come stimoli sia visivi che uditivi: egli sentiva suoni acuti nei colori più intensi. A un certo punto della sua vita Van Gogh decise di studiare musica, ma le sue prime esperienze con il pianoforte lo misero a disagio: ogni nota sulla tastiera restituiva prepotentemente ai suoi sensi la vista di un colore. Forse Van Gogh è tra i più alti esempi di cromestesia applicata all’arte, perché ancora oggi nelle sue tele rimane traccia delle forti percezioni sensoriali che lo ispirarono.

E forse una cromoestesia così “invadente” spiega anche alcuni suoi comportamenti ossessivi. Trovate qui un articolo interessante che cerca di distinguere tra sinestesia e allucinazioni, indagando sulle possibili conseguenze psicologiche di una sinstenesia profonda.

cromoestesia nell'arte

Mikalojus Konstantinas Čiurlionis (1875-1911)

Questo artista è molto famoso in Lituania, la sua madrepatria, ma ancora poco conosciuto da noi. Eppure fu uno straordinario pittore e compositore.  Čiurlionis visse in un’epoca dominata dalla corrente artistica del simbolismo, per la quale la sinestesia era un ideale da raggiungere: la possibilità di mescolare i sensi per arrivare a una percezione “totale” di un quadro o di uno spartito musicale era ciò che gli artisti e il pubblico desideravano sperimentare. Čiurlionis, che aveva in sé il dono della cromestesia, fu in grado non solo di inserirsi nello spirito dell’epoca creando opere nelle quali il colore e la musica dialogavano sottilmente tra loro, ma anche di andare oltre, approdando cioè all’astrattismo. E cosa meglio di un quadro astratto riesce a fare del colore il catalizzatore di significati e di sensi fisiologici ed emotivi?

 

Vasilij Vasil’evič Kandinskij (1866-1944)

Anche il celeberrimo Kandinskij, “padre” dell’arte astratta, da giovane era un simbolista: oltre a dipingere suonava il violoncello e si impegnava attivamente per portare le avanguardie europee nella sua Russia. In tutta la sua ricerca futura, la musica giocherà sempre un ruolo di primo piano: non solo per l’ideale sinestetico appreso dai simbolisti, ma anche per la sua dote personale, la cromestesia. Kandinskij associava ogni colore al suono di uno strumento musicale, e accostava perciò i toni sulle sue tele come per creare una ideale sinfonia. Per lui il giallo suonava con voce di tromba, il blu era un flauto, il rosso era una tuba; l’arancione una campana, il viola una zampogna, il verde un violino; il bianco era una pausa (silenzio musicale), mentre il nero era il silenzio vero e proprio, la fine. Forse nessun altro pittore ha saputo valorizzare la cromestesia a livello teorico e tecnico come fece Vasilij Kandinskij.


Aleksandr Nikolaevič Skrjabin (1872-1915)

Chiudiamo la nostra carrellata con un esempio “inverso” di cromestesia. Skrjabin, pianista e compositore, non si dedicò mai alle belle arti, eppure il senso del colore era per lui prepotente e giocava un ruolo fondamentale nella sua musica. Animo acuto e propenso alle sperimentazioni, Skrjabin arrivò a progettare una tastiera luminosa che fosse in grado di restituire al pubblico i colori che egli vedeva chiaramente nelle sue note. Per Skrjabin l’arte non era fatta di camere stagne nelle quali incasellare ogni disciplina artistica, era piuttosto una grande fontana alla quale ogni creatore, senza distinzioni di sorta, potesse bere. Per lui la musica non era un suono astratto, una voce immateriale, era invece colore, gusto, tatto, vita.

E per chi non prova spontaneamente la cromestesia?

Anche se la cromestesia è un dono innato che solo poche persone posseggono, anche i “normodotati” possono provare ad allargare gli orizzonti della percezione, come facevano ad esempio i simbolisti. Entrare in contatto con la bellezza dei colori e provare a immaginare – “che suono assocerei a questo prato verde?” – “che colore mi evoca il campanello di casa?” – ci aiuta a entrare in modo sempre più personale all’interno dell’universo artistico e a comprendere meglio le nostre opere preferite. In fondo tutta l’arte, che si tratti di musica, di pittura o di scrittura, ha il compito di evocare in noi un sistema di emozioni complesso che non si esaurisce quasi mai negli stimoli “semplici” di un unico senso. Forse siamo tutti un po’ cromesteti, o iniziamo ad esserlo quando la nostra passione per la bellezza ci spinge a penetrare sempre di più nei suoi misteri, cercando di replicare in noi l’emozione che un artista ha nascosto nelle sue opere.

Piccola storia sinestetica

Sebbene io sperimenti la sinestesia soltanto in rare occasioni (come nel caso dei mesi, di cui raccontavo all’inizio), ci sono occasioni in cui le sensazioni fisiche sono così precise e presenti, da segnare alcune scelte.

Springwater è una fantasia che ho recentemente ristampato su tessuto misto seta e lana, nata da un disegno su carta che in origine aveva colori molto accesi, con toni di rosso e arancio, e che ho poi manipola in digitale per ottenere questa palette di beige e verde acqua. Mentre ci lavoravo, mi sono resa conto che le mie sensazioni cambiavano radicalmente: quando la guardo in questa versione, sento sotto i piedi una sabbia finissima e ho l’impressione che i suoni si attutiscano, come quando metto la testa sott’acqua. A seconda del momento, queste sensazioni fisiche sono più o meno forti e, per questo motivo, la considero particolarmente speciale e potente.

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Interrogo i libri e mi rispondono. E parlano e cantano per me. Alcuni mi portano il riso sulle labbra o la consolazione nel cuore. Altri mi insegnano a conoscere me stesso.

Così Francesco Petrarca, uno dei più grandi poeti e bibliofili italiani, esprimeva il suo amore per i libri: li vedeva non tanto come delle cose, ma piuttosto come delle persone, quasi fossero per lui amici, fratelli, genitori o figli. Chi ama davvero i libri intesse con loro una sorta di patto d’amore e, come è naturale per chi ama, prova anche un po’ di gelosia.

Parliamo di libri, ma da un punto di vista diverso dal solito: il libro come supporto e materiale artistico, al posto della tela, o della creta. Ecco come il geloso amore dei bibliofili per i propri libri è stato capace di originare opere d’arte e, in alcuni casi, di inaugurare generi artistici a sé stanti.

Il libro e l'arte: l'arte della miniatura sui manoscritti - ARTISTANTE

I manoscritti miniati e illustrati

I codici miniati compaiono già nel tardo impero romano e si moltiplicano nel corso del Medioevo. Si tratta di libri in pergamena che venivano impreziositi con figure e decorazioni, oltre ai caratteristici capolettera (la prima lettera della pagina, in formato grande e finemente decorata). I materiali classici della decorazione erano l’oro e l’argento, ma più tardi si aggiunsero anche pigmenti più comuni. Libri di questo genere sono presenti in tutte le culture, non solo in quella cristiana, ma anche in quella islamica e cinese. 

Potremmo pensare che tale preziosità derivi dal fatto che molti di questi libri erano testi sacri, Bibbie o Corani. Beh, non è sempre vero. A partire dal ‘200, sempre più testi profani iniziarono a essere copiati in preziose edizioni miniate: e cosa non è questo, se non una dimostrazione d’amore da parte dei bibliofili per i loro testi preferiti? 

Dobbiamo considerare che i libri, all’epoca, avevano un costo esorbitante: nel ‘400, poco prima dell’invenzione della stampa, un antifonario copiato, miniato e rilegato costava pressappoco quanto lo stipendio annuo di un professore universitario e valeva ben più di una casa di campagna. I manoscritti miniati, come potrete allora immaginare, non seguivano certo una filiera prodotto-negozio, ma andavano commissionati direttamente dal bibliofilo. Quando questo accadeva, il committente aveva sicuramente già letto il libro: quel che chiedeva non era una nuova lettura, ma piuttosto una copia “in bella” da conservare (oltre che da esibire agli amici). 

Ripeto: cos’è questo se non amore?

Volete anche voi fare un tuffo nelle miniature? Ecco un link prezioso: qui troverete moltissimi manoscritti da sfogliare ammirare.

Pittura sul borde dei libri, storia dell'arte, Martine Froste -ARTISTANTE

La pittura: non solo sulle copertine

Chi di voi non ha mai prestato un libro e poi non se lo è più visto restituire? Ecco spiegato perché i bibliofili sono in generale restii a prestare le proprie “creature”; ecco spiegato anche perché, fin da tempi remoti, sono stati inventati dei modi più o meno segreti per personalizzare i libri, in modo da rendere riconoscibile il loro proprietario.

Uno dei modi per decorare i libri, oltre a intervenire sulle pagine interne o sulla copertina, è la pittura sul bordo, ossia sul taglio delle pagine. Questa tecnica fu inventata in epoca medioevale, ma dopo l’invenzione della stampa divenne un vero e proprio fenomeno di moda, tanto più quando, intorno al ‘700, i soggetti dipinti sul taglio delle pagine divennero a scomparsa: invisibili a libro chiuso, questi disegni si svelano soltanto se si imprime una curvatura particolare alle pagine scritte. 

All’origine di questa pratica, come di tante altre, c’è una leggenda: la leggenda del re bibliofilo.

Si racconta che re Carlo II d’Inghilterra (1630-1685) avesse un’amica alla quale era solito prestare i suoi libri: purtroppo, la nobildonna dimenticava spesso di restituirli, tentando anche di far passare certi volumi per suoi. Fu così che il re, riprendendo l’antica arte della pittura sul bordo, rese i soggetti impressi sul taglio dei suoi libri “invisibili”. Questo sarebbe stato un modo per rivendicare l’appartenenza dei volumi non restituiti, senza che la duchessa cui li prestava si accorgesse del trucco.

Infatti, secondo la leggenda, accadde una volta che la donna cercò di far passare un tale libro, prestatole dal sovrano, per suo. Il re, piegando in un certo modo le pagine del volume, fece comparire agli occhi increduli della duchessa lo stemma regale, impresso a scomparsa sul bordo delle pagine. Lei, credo, morì di vergogna. 

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Martin Froste e il fore edge painting oggi

Oggi non sono molti gli artisti artigiani che si dedicano ad impreziosire il volumi con questa affascinante tecnica. Uno dei pochi è Martine Froste, l’artista inglese che ha il merito di portare avanti l’antica pratica del fore edge painting. I suoi disegni sono un connubio di antiche tecniche, stile classico e soggetti anche moderni. Vi consiglio di approfondire, vale la pena conoscerlo.

Ecco dove:

Gli ex libris: il marchio personale di amore e gelosia

L’ex libris è il vero marchio del bibliofilo e, a differenza di altri segni di appartenenza che non sono più attuali, oggi viene ancora usato largamente. 

Si tratta di un timbro da apporre sulle prime pagine di un volume e serve a indicare il nome del suo proprietario. L’esempio più comune di ex libris è quello che si può trovare sui volumi appartenenti alle biblioteche: un semplice timbro indica il nome della biblioteca ed eventualmente il suo indirizzo o numero telefonico. 

Ben diverso è il caso degli ex libris d’arte, che sono poi la vocazione naturale di questo particolare strumento: non si tratta solo di indicare che il libro è di una tal persona (basterebbe scrivere il nome a penna, per questo) ma anche di rappresentare qualcosa di più ideale. L’ex libris è di fatto un modo che il bibliofilo ha di comunicare con il mondo, esprimendo se stesso e facendo della sua biblioteca una vera opera d’arte.

L’ex libris personalizzato contiene di solito un motto o un’immagine scelta perché particolarmente significativa per il proprietario. Fra i primi ex libris d’arte giunti a noi, c’è quello nato dalla passione idealistica di un bibliofilo e dall’abilità di un artista: è quello creato da Albrecht Dürer (1471-1528) per Hieronymus Ebner. L’immagine contiene una raffinata illustrazione con degli stemmi nobiliari, il nome del committente e un motto: “Dio, mio rifugio”.

Approfondisci qui la storia degli ExLibris

ex libris personalizzato, un'opera d'arte in miniatura per personalizzare la tua collezione di libri

L’Ex Libris ebbe fortuna come genere artistico, tanto che in tempi recenti il collezionismo legato a queste piccole immagini è diventato dilagante. L’idea di collezionare ex libris è ritenuta dai bibliofili più radicali, come Egisto Bragaglia e Giancarlo Nicoli, uno snaturamento della loro funzione. Questi autori hanno recentemente pubblicato un “manifesto” per il ritorno dell’ex libris alla sua funzione originaria: marchio personalizzato che descrive il rapporto intimo tra una persona e i suoi libri del cuore.

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Rovesciamento di termini: i libri d’artista

L’arte figurativa e i libri hanno avuto per secoli un legame così stretto che non dobbiamo stupirci se a un certo punto sono comparsi dei libri senza testo che si propongono di per sé come oggetti d’arte. Sono volumi nei quali tecniche pittoriche di diverso tipo prendono il sopravvento, annullando o comunque sottomettendo la dimensione della parola e riempiendo ogni spazio di pura immagine.

L’idea del libro d’artista ha ancora più senso e più significato nei nostri tempi moderni, in cui il mondo dell’editoria si è fatto industriale, i libri “preziosi” sono sempre più rari e le case editrici puntano su edizioni economiche tutte uguali. La nascita dei libri d’arte mi fa pensare a un’intenzione degli artisti di tornare su uno spazio che per secoli è stato per metà degli scrittori, certo, ma per metà anche loro.

Qui entrano in gioco un altro tipo di amore nei riguardi del libro, un’altra gelosia: non più quella del bibliofilo che ama le parole scritte, ma quella del pittore che ama la materia e le sue possibilità. Carta, cartoncino, un po’ di colla e filo e del colore: questi i materiali poveri e quotidiani che possono essere la base di partenza per creazioni di grande valore artistico.

Uno dei primi libri d’artista moderni fu creato da un personaggio molto particolare, sia poeta che pittore: William Blake (1757–1827), il quale scrisse, illustrò e rilegò le sue Songs of Innocence and of Experience in un volume davvero unico. Lì la parola e l’immagine si completavano, avevano la stessa importanza. 

Il libro come opera d'arte: il libri d'artista nella storia dell'arte - ARTISTANTE

Le avanguardie e il libro di artista

Il fenomeno esplose davvero quando entrarono sulla scena le avanguardie: il Futurismo, il Surrealismo, il movimento Dada: tutti questi gruppi artistici seppero fare dell’oggetto-libro un’esperienza unica, non solo sul piano visivo ma spesso anche sul piano tattile. Crearono volumi polemici, satirici, ironici, sognanti, i quali aprendoli e scorrendoli si trasformavano in esperienze personali, quasi in micro-performance artistiche destinate a un solo lettore. Queste idee innovative sono state poi riprese dalle generazioni successive e dalle neo-avanguardie successive agli anni ’60.

Libri d’artista oggi: non solo carta

Ad oggi non capita così raramente che un museo italiano organizzi mostre completamente dedicate al libro d’artista, o che annoverino nelle loro collezioni alcune di queste opere, che non sempre sono fatte di sola carta. 

Forse perché il libro è di per sé un contenitore, la sperimentazione contemporanea lo ha manipolato fino a scomporlo e ricomporlo con materiali misti, che suggeriscono una storia nella storia.

È il caso dei libri di Filippo Biagioli, tra cui il bellissimo Leggendario della Valnerina, realizzato per il Museo della Canapa di Sant’Anatolia di Narco. Le leggende illuastrate non sono scritte, ma ricamate sulla canapa, mentre la copertina è di legno. Godetevi qui il cortometraggio per  scoprire i dettagli della lavorazione.

Filippo Biagioli Museo della Canapa: il libro è un'opera d'arte ARTISTANTE

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La penna a sfera sta per compiere un secolo e da almeno settant’anni è popolare in tutto il mondo. Questa invenzione, che ha soppiantato nell’uso comune la vecchia e macchinosa stilografica, non smette mai di mostrarci le sue infinite possibilità. Piace agli scrittori e ai pittori di ieri e piace, soprattutto, ai giovani artisti di oggi. Addentriamoci nella storia della “biro” e nei suoi usi artistici più interessanti.

La lenta nascita della penna a sfera: tutto ebbe inizio con Leonardo

Chi ha inventato quella che tutti, oggi, chiamiamo “biro”? Questo termine è entrato in uso in italiano grazie allo scrittore Italo Calvino, il quale soleva chiamare in questo modo la penna a sfera, riferendosi al nome del suo inventore: László Bíró. Ma la storia di questa invenzione, come di molte altre, non è tanto semplice e lineare come sembra.

Il primo a concepire l’idea di una penna a sfera fu un personaggio a noi molto noto: Leonardo da Vinci, grande scienziato, artista e…scribacchino! Ma ci vollero diversi secoli perché la sua intuizione di un “ingegno scrittoio” a sfera venisse veramente realizzato.

Dopo Leonardo, a inventare la penna a sfera ci provò un americano vissuto alla fine dell’800, tale John J. Loud. Egli ideò la penna e il meccanismo a sfera inchiostrata, ma il suo prototipo aveva un grave difetto: non scriveva sulla carta, andava bene solo per il legno o altre superfici dure. Era quindi del tutto inutile. Così Loud lasciò perdere e si disinteressò per sempre alla produzione di penne. Ma negli anni ’30 un giornalista ungherese naturalizzato argentino di nome László Bíró scoprì il progetto di Loud e provò a migliorarlo.

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László Bíró, il papà della biro

Da giornalista, Bíró utilizzava la penna quotidianamente e conosceva tutti i difetti delle tradizionali stilografiche, tanto belle quanto scomode: queste penne lasciavano le mani sempre macchiate di inchiostro e, per di più, erano tutto fuorché economiche. Ebbene, Bíró decise di “inventare” finalmente la penna a sfera trovando il modo di farla funzionare, e ci riuscì grazie all’aiuto del fratello chimico. Questi inventò una formulazione di inchiostro, simile a quello tipografico, che si dimostrò più adatto alla nuova penna. Ecco cos’era mancato a Leonardo da Vinci e a John J. Loud: i loro progetti erano validi, solo la composizione dell’inchiostro era sbagliata!

E così László Bíró (1899-1985), finalmente, divenne ufficialmente il padre della “biro”.

L’invenzione fu brevettata in Inghilterra e Ungheria, ma, allo scoppio della guerra, Biró, di origini ebraiche, fu costretto a fuggire e a rifugiarsi in Argentina, dove la penna a sfera fu perfezionata, prodotta e messa in vendita per la prima volta nel 1945.

La penna originale era in metallo, si comprava ad un costo abbastanza contenuto e poi andava semplicemente ricaricata, finito l’inchiostro, con le apposite cartucce.

Penna a sfera e arte: il brevetto di Biro

Marcel Bich e la rivoluzione di plastica

Ma chi trovò il modo di decretare il successo della nuova invenzione fu l’imprenditore francese Marcel Bich, il quale acquistò il brevetto da Bíró e fondò la società, ancor oggi molto famosa, detta Bic. La sua idea era semplice: usare la plastica per fabbricare penne così economiche da poterle gettare via quando esaurite, senza doverle mai più ricaricare. Oggi sappiamo che l’usa e getta è meno conveniente di quanto sembri, ma all’epoca fu una rivoluzione.

Oggi, biro e bic sono nella nostra lingua dei perfetti sinonimi di “penna a sfera”. Tanto è stato il successo dei primi avventurieri della “nuova scrittura”! Un successo che, precisiamo, non sembra destinato a tramontare neppure nell’era degli smartphone e dei computer. Rispetto al passato scriviamo sempre meno, eppure in casa o in ufficio non può mai mancarci un set di biro per appuntare numeri di telefono, spese da fare o fugaci pensieri poetici.

Storia della penna a sfera, la BIC

Un nuovo modo di disegnare e progettare

Immediata e sempre pronta, la penna a sfera inaugura un nuovo rapporto tra idea e realizzazione creativa. Fra i primi a intuirlo fu Giacometti.

Giacometti, storia della penna a sfera nell'arte

Alberto Giacometti (1901-1966)

Il famoso pittore, scultore e incisore svizzero affermò una volta: “di qualsiasi cosa si tratti, di scultura o di pittura, è solo il disegno che conta”. Questa sua fede nel disegno, non certo scontata, lo portò a realizzare moltissimi schizzi e opere su carta (ritratti, manifesti…), a volte utilizzando come “pennello” proprio la penna biro. In lui è particolarmente evidente l’importanza dell’immediatezza, quel rapporto istantaneo tra idea ed espressione che solo la biro può garantire. È l’inizio di un nuovo metodo di pensare e progettare l’opera.

La biro al posto del pennello: l’arte si fa con tutto

Alcuni potrebbero pensare che il mezzo in sé sia limitante, utile solo per bozze e schizzi, per prendere appunti preliminari e non per l’Arte con la A maiuscola, ma ecco una breve e assolutamente non esaustiva lista di cose da vedere per ricredersi.

arte con la bic blu: Mostafa Mosad Khodeir

Mostafa Khodeir

Questo artista egiziano poco più che trentenne è diventato famoso in tutto il mondo grazie al web, dove ha condiviso incredibili opere d’arte iperrealiste realizzate soltanto con l’uso di una semplice biro blu. Khodeir è un vero e proprio virtuoso della Bic e la sua attenzione al dettaglio stupisce particolarmente chi osserva i suoi disegni.
Questo è il suo canale YouTube.

Arte con la penna a sfera enam bosokah

Enam Bosokah

Ecco un altro giovane artista iperrealista che ha fatto della Bic il suo strumento principe. Di nazionalità ghanese, Bosokah raffigura nelle sue opere i volti e i costumi della propria terra, in ritratti che con le loro “ombre” e i loro sguardi penetranti suscitano forti emozioni negli spettatori.
Questo è il suo account Behance

marcello carrà opera disegnata con la penna a sfera

Marcello Carrà

“Datemi una Bic e vi solleverò il mondo”, ha detto di recente l’artista ai giornali. Ed è proprio così, nella misura in cui egli riesce con questo piccolo e semplice strumento a creare disegni complessi, anche di enorme formato. Carrà lavora su due filoni: la rivisitazione in termini attuali di grandi opere del passato e la rilettura concettuale di alcuni tra i disegni più antichi e affascinanti della storia: quelli dei “bestiar”  medievali. I risultati, in termini di “matericità” del disegno e di surrealismo immaginifico, sono davvero incredibili: la biro, con Carrà, smette di essere un limite e diventa una potenzialità. Personalmente, in un panorama popolato da moltissime proposte iperrealiste, trovo nella sua arte uno sbocco verso un mondo davvero senza confini, perché libero dal dovere di cronaca che la rappresentazione della realtà impone.
Visitate il suo sito qui.

Storia dell'arte: l'uso della penna a sfera - Deborah Delasio

Deborah Yael Delasio

Siamo abituati a concepire la biro nera o blu e quindi ad usarla in senso monocromatico, ma Deborah ci insegna che le BIC non hanno neppure questo limite e che sono uno strumento inaspettatamente versatile, anche per chi si esprime a colori.
“Vago nel mio personale labirinto e lascio tracce di me. Disegno con le penne, immagino mondi e provo a farli vivere sul foglio. Nel mio piccolo universo di creature fantastiche c’è il mio sogno di un’infanzia da custodire.”
Ecco il suo account IG.

La biro: minimalista ed economica 

Alcuni tra i più giovani e promettenti artisti che utilizzano la penna biro come strumento d’elezione sono originari di paesi, come l’Egitto e il Ghana dei nostri esempi, che siamo soliti denominare “terzo mondo”. Non è mio intento generalizzare, ma credo che questi giovani siano l’esempio di come si possa fare arte ad alti livelli pur con pochi o pochissimi mezzi a disposizione. 

È l’artista a fare l’arte, insomma, e non i mezzi che ha a disposizione. Anche un semplice foglio di carta e una biro, in mano a chi  è portatore di un pensiero originale, possono diventare arte: dal semplice scrabocchio, che è il germe di ogni progetto, fino all’opera finita, la bic è la protagonista della creatività del nostro tempo.

Oggi la “pittura con la biro” è diventata estremamente popolare sul web, dove giovani artisti condividono e rendono virali le loro creazioni, che possono essere di grande formato oppure minuscole come francobolli.

I tradizionalisti potrebbero avere qualcosa da ridire su uno strumento così “povero” come la biro, ma trovo che il diffondersi dell’arte a penna ci insegni, come diceva l’illustre Giacometti, che ciò che conta è il disegno, nient’altro.

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Parliamo e ci vestiamo da cromofobici

Quando si parla di una persona e la si definisce “colorita”, cosa vi viene in mente? Di solito, è un modo benevolo di criticare una condotta frivola, un po’ sopra le righe, addirittura volgare. Il linguaggio colorito, infatti, è quello infarcito di volgarità e un ambiente colorito è quello in cui ci si lascia andare a comportamenti spontanei, non mediati dalle rigide regole della società chic.

Non è qualcosa su cui riflettiamo spesso, ma la fama del colore, nel nostro linguaggio e nella cultura occidentale in generale, non è quasi mai positiva e, se lo è, lo diventa solo in contrapposizione ad una regola aurea che ad alcuni può andare stretta.

Il sistema, la retta vita, la civiltà, la purezza, la classe, l’eleganza sono tutti concetti che, almeno in occidente, rigettano il colore, tanto che si parla di cromofobia della cultura occidentale

Il colore, sia nella filosofia estetica che nell’immaginario collettivo, rappresenta due ordini di concetti.

Il primo, legato al primitivo e al tribale, ci parla di un caos non ancora dominato dalla ragione e non conformato alla civiltà progredita.

Il secondo, legato al rifiuto della cultura dominante, assume connotati addirittura eversivi, quando non folli. E dove c’è follia, troviamo anche la femminilità: una donna che sfoggia colori sgargianti è certamente più tollerata di un uomo che volesse indossare un cappotto giallo su un completo verde lime. A meno che, ovvio, non sia gay, e quindi, come la donna, emarginato e/o emarginabile.

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Cromofobia: una storia antica

Da dove viene questa accezione ghettizzata del colore? Ne possiamo trovare traccia molto lontano nel tempo, radicata nella filosofia classica. Intanto, color ha, in latino, la stessa radice di celare, perché, come un cosmetico, è fatto per nascondere, ma già Aristotele, per il quale il colore era pharmakon, ossia droga, relega il colore alla cosmesi, scrivendo nella Poetica: 

Se si versano a caso dei bei colori, non si ottiene lo stesso piacere che se si disegna in bianco un’immagine. 

Di questa citazione mi piace quel a caso che secondo me la dice lunga.

Che il bello sia nella forma e nel tratto del disegno, non nei colori, è una convinzione che è sopravvissuta ai secoli. Sappiamo oggi che l’architettura e la scultura greco romana erano assai più colorate di come le ammiriamo oggi, ma, nell’iperuranio delle idee pure di bellezza e arte, il colore non è mai entrato.

Prendete il dibattito medievale sul colore, che vede contrapposti fior fior di teologi intorno al suo significato divino. Bernardo di Chiaravalle, fondatore dell’ordine cistercense, fu tra i più valorosi e accaniti cromofobici del suo tempo, ed impose all’interno e all’esterno degli edifici religiosi, il candido rigore che pretendeva per le anime. Trovò sicuramente degli oppositori e, infine, il gotico inondò le navate delle luci policrome delle vetrate, eppure la bellezza e la purezza non hanno mai smesso di essere associate al bianco o all’assenza di colore.

Cromofobia - storia del colore - Artistante

Secoli dopo, nella Critica del Giudizio Kant ci spiega, di nuovo, che i colori che ravvivano il disegno sono attraenti per i sensi, ma non lo rendono degno dell’intuizione del bello. Il bello è dominio dell’intelletto e, non solo fa a meno del colore, ne può anche essere distolto, perché i colori ci influenzano in modo quasi patologico.

Arriviamo così al XIX secolo e alla critica dell’arte di Charles Blanc – non vi pare un nome significativo per un cromofobico? A più riprese Blanc affronta la dicotomia tra forma e colore, sancendo l’assoluta superiorità della prima sul secondo.Questo passaggio è particolarmente significativo

L’unione del disegno e del colore è necessaria per generare la pittura esattamente come è necessaria l’unione dell’uomo e della donna per generare l’umanità, ma il disegno deve conservare il suo predominio sul colore. Altrimenti la pittura precipita verso la sua rovina: cadrà ad opera del colore proprio come l’umanità cadde ad opera di Eva.

Eccolo: il colore è caduta, e quindi femmina. Non solo, il colore è anche poco evoluto, come ci spiega in un altro passaggio, in cui affronta il tema del linguaggio e afferma che gli uomini, all’apice della piramide, usano il linguaggio verbale, gli animali usano i versi e la gestualità, mentre agli esseri completamente inanimati, ossia ai minerali, non resta che il colore. Come se le gemme fossero colorata, in quanto incapaci di parlare.

Il colore, dunque, è la caratteristica peculiare delle forme inferiori nella natura, mentre il disegno diventa il mezzo di espressione, tanto più dominante, quanto più in alto saliamo nella scala dell’essere.

La Cromofobia ai giorni nostri: cinema, arte e vita quotidiana

A questo punto, c’è da chiedersi come stiano le cose ai giorni nostri. All’inizio, ho fatto due esempi che ci raccontano di come la diffidenza verso i colori sia ancora radicata nel modo di esprimerci e di apparire. Anche quando non indossiamo una divisa, siamo molto meno inclini a utilizzare palette di colore personalizzate sui nostri gusti di quanto pensiamo. L’accettazione nella società passa anche da un prudente minimalismo, che ci fa trovare d’accordo su una serie di dogmi, come quello che il nero addosso sia elegante, sempre e comunque, e il bianco e il beige siano ideali per qualsiasi tipo di arredamento. 

Il colore viene apprezzato nella sua accezione esotica, come un alieno interessante, che ci fa sognare di civiltà lontane o di travolgenti momenti di follia – positiva solo quando, appunto, momentanea. 

cinema - colore e cromofobia - storia del colore - Artistante

Un esempio? Quanti film vi vengono in mente che usino il colore per rappresentare una realtà alterata? Come Paura e Delirio a Las Vegas (colore come pharmakon, di nuovo), ne potrei citare moltissimi. Ma anche senza tornare sulla associazione diretta fra droga e colore, ci sono registi che praticamente si sono specializzati nel colore per poter narrare le loro storie con un registro che potremmo definire “realismo magico”, contestualizzando trame assurde in un ambiente più che propizio. Wes Anderson, per dirne uno: chi non ha apprezzato I Tanenbaum e Gran Budapest Hotel anche dal punto di vista cromatico probabilmente non ha colto uno degli aspetti portanti.

Il colore, insomma, è una caduta (la droga) o una fuga (il realismo magico), ma, in entrambi i casi, non fa parte del quotidiano, del normale e, in senso lato, neppure del giusto.

storia del colore - arte primitivista - Artistante

Henri Matisse

Passiamo all’arte contemporanea. Intanto, la rivalsa del colore sulla forma , ad esempio nell’impressionismo e nell’espressionismo, rappresenta una vera e, inizialmente, osteggiata rottura. I movimenti artistici di quel periodo erano considerati primitivi, non solo da chi li disprezzava, ma persino da chi li promulgava: il fauvismo e tutti i movimenti primitivisti si facevano portatori di un linguaggio che ricercava nel colore proprio un ritorno ad una spontaneità che si contrapponeva ai rigidi dettami della Accademie. Insomma, il colore era rottura e regressione, da qualunque parte la si voleva guardare. E dove è finito, oggi, tutto quel colore?

Piero Manzoni, arte contemporanea e cromofobia

Piero Manzoni – Achrome

Facendo un giro in qualsiasi galleria d’arte, soprattutto le più chic, vi renderete conto che lo spazio è quasi interamente occupato da opere materiche, spogliate di colore: penso alle opere di Fontana, Manzoni, Castellani e discepoli. Quando il colore compare, assoluto ed esibito, è spesso pura provocazione.

Ma torniamo a noi, alla vita di tutti i giorni, ai nostri gusti personali e alla nostra percezione. Leggendo questo articolo, quanti di voi si sono accorti di essere inconsciamente cromofobici?

Personalmente, non conosco più che una manciata, fra uomini e donne, che potrei definire sicuramente affetti da una forma incurabile di cromofobia. Eppure, persino io, che credo di avere un’altissima tolleranza al colore, finisco con il conformarmi.

Enrico Castellani - arte contemporanea e cromofobia - storia del colore

Enrico Castellani

Cromofobia e conformismo

Conformismo e Cromofobia vanno a braccetto. Le divise ci piacciono, anche se fingiamo che non vogliamo che ci vengano imposte. Quello che è tragico, però, non è voler essere accettati: l’accettazione è una necessità dell’uomo e non ha senso sbandierare un presuntuoso solipsismo. L’aspetto veramente inquietante è voler essere accettati DA TUTTI. Pretendiamo di essere universalmente accolti, di piacere o comunque di non risultare sgradevoli, a prima vista, mai e a nessuno.

Forse per questo, accettiamo di buon grado il dress code, pure per andare in giardino a potare la siepe o per prendere un caffè con gli amici. Non parlo, ovviamente, di quelle basilari regole di decenza che dovrebbero essere sempre seguite per rispetto del prossimo e del contesto: è ovvio che non andrò in ufficio in prendisole e infradito, ma mi chiedo spesso come mai non mi sia mai comprata un completo verde ottanio, che per altro mi starebbe benissimo, soprattutto abbinato ad una borsa magenta. 

In parte, non l’ho mai fatto perché, a meno che non sia l’anno in cui va di moda il verde ottanio, non troverò in nessun negozio un completo di quel colore, ma sarei disonesta se dicessi che questa conformità dell’offerta di mercato (una non-offerta, a ben vedere) mi abbia creato un reale disagio.

Almeno fino adesso.

Colore come evoluzione

Cosa è successo? Al contrario di quanto abbiamo detto sul suo carattere primitivo, credo che nella mia vita il colore rappresenti un’evoluzione. Si tratta di una parte della personalità che è cresciuta, si è formata una propria griglia di “mi piace” e “non mi piace” ed ha acquisito consapevolezza. Il nero, il bianco e tutte le sfumature intermedie continueranno a piacermi, ma come colori alternativi ad altri, e non come assenza di colore. 

In sostanza, credo che accettare la nostra personalissima preferenza in fatto di colore sia un passo avanti verso il dominio della ragione sull’inconscio, e non una regressione infantile, come spesso viene interpretata. Arrenderci alla cromofobia ci fa fare scelte comode e rassicuranti, e farci stare comodi è tipico dell’istinto di sopravvivenza, non dell’intelletto. 

Forse non saranno le scelte personali a cambiare 2000 anni di cultura innestati sulla cromofobia, ma credo che, nel nostro piccolo, valga la pena affrontare l’argomento con maggiore consapevolezza, per recuperare un ingrediente in più, che può fare davvero la differenza nella quotidiana esperienza della realtà e nel piacere che possiamo trarne. 

David Batchelor, Cromofobia - storia del colore - Artistante

David Batchelor

Note e ringraziamenti

Moltissimo di questo articolo si deve a Cromofobia di David Batchelor e al suggerimento di una lettrice che mi ha proposto l’argomento attraverso il sondaggio che ho indetto a luglio 2021. Per questo ringrazio tutti i miei lettori: siete capaci di stimolare in me il piacere per la ricerca, l’approfondimento e la condivisione.

Il bestiario di Josep Baqué e l’irresistibile fascino del mostro

Il bestiario di Josep Baqué e l’irresistibile fascino del mostro

il bestiario di josep baqué

Chi era Josep Baqué

Credo che, finché fu in vita, Josep Baqué non si definì mai un artista. Nato a Barcellona nel 1895, fu magazziniere, aiutatane cuoco, e intagliatore in giro per l’Europa, per poi finire, grazie ad uno zio, nella polizia municipale della sua città, lavoro che svolse fino alla sua morte, nel 1967. Da giovane era considerato un piantagrane e da adulto una persona riservata e schiva. Non si è mai sposato e ha vissuto la sua vita con discrezione e in un’apparente normalità.

Allora perché ne stiamo parlando? Perché, mentre su questo pianeta la sua vita scorreva nella più ovattata banalità, in un altro luogo, Baqué stava creando un mondo alternativo. Come ogni bravo demiurgo, aveva un piano preciso: creare un catalogo mostruoso.

il bestiario di josep baqué

Il catalogo dei 1500 mostri

Baqué ci ha lasciato 454 tavole divise in rigide griglie, per un totale di 1500 mostri, catalogati da lui stesso in nove differenti categorie e raccolti in una cartella di cartone che lui stesso aveva realizzato. Sotto ad ogni mostro, ci sono due righe a matita che dovevano essere dedicate ad una didascalia, che però non scrisse mai.

Le sue creature sono tutte diverse. Le prime sono più riconoscibili, riconducibili ad animali reali, ma con gli anni i suoi disegni si fecero sempre più fantasiosi e l’uso dei colori divenne più raffinato.

Che dite, a Baqué sarebbe piaciuto il progetto degli esercizi cavernicoli? Facciamoci insegnare da un maestro come si libera la fantasia!

josep baqué - 1500 mostri

RISORSE ONLINE

Godetevi molte delle tavole disponibili online sul sito ADER, da cui ho tratto le immagini di questo articolo.

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Biennale di San Paolo, nonostante tutto!

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Di recente mi è ricapitato fra le mani il tomo dedicato alla 23° edizione della biennale di San Paolo, quella del 1996, che aveva dedicato una sala speciale a Basquiat e che rimpiango ancora adesso di non aver potuto visitare. Mi fu però regalato il catalogo, un volume importante e pesante, che mi oggi mi fornisce il pretesto per parlare di come San Paolo sia stata a lungo l’unica eccezione alla regola dei circuiti di arte internazionale, che hanno visto per anni gli artisti viaggiare solo fra Europa e Nord America.

biennale di san paolo, storia della biennale più antica del mondo, dopo quella di venezia - STORIA DELL'ARTE

La Biennale di San Paolo
e la travagliata storia politica del Brasile

Come praticamente tutti sanno, la biennale di arte più antica del mondo è quella di Venezia, istituita nel 1895. Meno noto è il primato della Biennale di San Paolo, la seconda più antica dopo quella italiana, inaugurata nel 1951 grazie al lavoro dell’industriale italo-brasiliano Ciccillo Matarazzo (1898-1977). Matarazzo aveva fondato il MAM (Museo de arte Moderna de São Paulo) nel 1948 e si era da subito adoperato per far sì che la manifestazione diventasse importante a livello globale. Già nel 1953, alla sua seconda edizione, la Biennale aveva abbastanza prestigio da potersi permettere di portare in Brasile un’opera famosa e importante come Guernica di Pablo Picasso. 

Nel decennio successivo la biennale fece altri passi avanti. Per un caso non proprio fortunato, raggiunse la maturità con le edizioni del 1965 e del 1967: da poco si era instaurata in Brasile la dittatura militare, eppure a San Paolo erano riusciti a raccogliere una collezione di opere che mai si sarebbe pensato di poter ammirare al di fuori del circuito europeo e nordamericano. Fu possibile vedere tutte insieme opere di artisti come Marcel Duchamp, Paul Klee, Joan Miró, Marc Chagall, Andy Warhol, Edward Hopper e moltissimi altri.

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Le censura di regime

La dittatura, però, era un peso che gli artisti non erano disposti ad accettare. Boicottata nel 1969 e nel 1971, la biennale andò incontro ad edizioni mutilate e nel 1973 subì la censura del CAC (Conselho de Arte Cultura), che rifiutò il 90% delle opere selezionate dalla direzione artistica, rimpiazzandole con altre selezionate da giurie regionali filogovernative. Riuscite a immaginare un’operazione più ridicola? Eppure c’era poco da scherzare: protestare apertamente e denunciare gli orrori della censura significava il carcere.

Alla biennale di San Paolo va riconosciuto lo sforzo che fece per non soccombere. Nonostante le difficoltà, è riuscita ad arrivare agli anni 80 e alla caduta della dittatura (1985) senza perdere il prestigio necessario a far muovere sul polo sudamericano il fermento artistico, mantenendolo in contatto con il resto del mondo. Le esposizioni degli anni 90 ne sono la conferma.

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La sede della biennale di San Paolo:
il padiglione Matarazzo

Fin dal 1957, la sede della biennale di San Paolo è il Padiglione Matarazzo, opera dell’architetto modernista Oscar Niemeyer, lo stesso che ha progettato l’intera città di Brasilia. Niemeyer non era certo un dissidente. Al contrario, egli diede il volto al potere politico brasiliano, che all’epoca era in mano al presidente Juscelino Kubitschek, uno dei personaggi che favorì la dittatura militare, sebbene successivamente venne messo da parte da Castelo Branco, considerato il primo vero presidente del regime militare. 

Il padiglione ha tre piani e offre 30.000mq di spazio espositivo.

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2020, l’anno della pandemia e l’edizione rimandata

Nel 2020 si sarebbe dovuta svolgere la 34th edizione della biennal, rimandata al 2021 e spalmata in diversi eventi, per adattarsi alla situazione dettata dalla pandemia COVID. In Brasile, la gestione della crisi è in mano al presidente Jair Bolsonaro, noto negazionista, il che non ha potuto che peggiorare le conseguenze di un evento già drammatico.

Il tema della 34° edizione è “Faz escuro, mas eu canto“, “È buio, ma io canto”, che in questo periodo si adatta a molte situazioni, con questo intento:

La 34° biennale di San Paolo vuole rivendicare il diritto alla complessità e all’opacità, tanto delle espressioni artistiche e culturali, quanto delle identità di individui e gruppi sociali.

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Fare arte con la luce: il caso Roosergaarde e il social design

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Arte con la luce

L’evoluzione tecnologica e quella artistica vanno spesso di pari passo. L’utilizzo della luce pura e immateriale per creare installazioni artistiche è sempre più diffuso e oggi si avvale di proiettori in grado non solo di svelare gli oggetti, ma anche di modificarli, plasmando un’esperienza “aumentata” della realtà. È il caso, ad esempio, delle performance in video mapping, in cui proiettori all’avanguardia interagiscono con opere architettoniche o palcoscenici, per creare ambiente nuovi e interattivi, in cui si muovono attori e spettatori.

Le nuove teconoogie sposato perfettamente anche le istanze sociali e ambientali. A questo proposito, ho incontrato molti progetti interessanti di Social Design rivolti alla creazione di una nuova bellezza.

arte con la luce e il colore, opera di social design

Cosa è il social design

Già negli anni ‘80 si parlava di social design, come di un metodo di progettazione che prestasse maggiore attenzione ai temi sociali e ambientali. In questi anni, è sempre più forte la spinta di designer, architetti e artisti, verso una concezione di bellezza e utilità che non possono più prescindere da caratteristiche come la sostenibilità e l’accessibilità. A questo proposito, Daan Roosegaarde dice: “Le persone non cambieranno a causa dei fatti o dei numeri. Ma se possiamo innescare l’immaginazione di un nuovo mondo, questo è il modo per attivare le persone. Non credo nell’utopia, ma nella protopia; passo dopo passo migliorare il mondo che ci circonda. L’arte è il nostro attivatore “.

Studio per il design sociale, arte con la luce

Lo studio di Dann Roosergaarde

Ogni volta che indago l’argomento scopro progetti interessantissimi sia dal punto di vista artistico che tecnologico e scientifico. Uno dei designer che maggiormente ha attirato la mia attenzione di recente è Dann Roosergaarde. Basato in Olanda, paese di nascita di Roosengaarde, il suo Studio di social design mette in contatto persone e tecnologia in opere d’arte che migliorano la vita quotidiana negli ambienti urbani, stimolano l’immaginazione e combattono la crisi climatica. Vorrei presentarvi qui due dei suoi progetti, uno ambientato nel paesaggio agricolo e che si intitola Grow, e l’altro dedicato al paesaggio urbano e all’emergenza pandemica, che si intitola Urban Sun.

arte con la luce e il colore rosso e blu, social design

Grow: arte e agricoltura

Grow è una cosa diversa dal video mapping, ma fa parte di questo filone artistico che utilizza la luce per modificare la realtà, svelandone la bellezza e coinvolgendo lo spettatore in un’esperienza artistica laddove non avrebbe soffermato lo sguardo. Come su un campo di porri.

Nel video di presentazione, l’artista e designer Dann Roosergaarde si chiede come si possa portare l’attenzione delle persone su un tassello fondamentale della nostra esistenza, anzi, della nostra sussistenza, che tendiamo ad ignorare, ossia l’agricoltura, facendo dell’agricoltore l’eroe della narrazione. L’arte e la scienza possono insieme creare uno scenario in grado, allo stesso tempo, di migliorare l’agricoltura e di coinvolgere lo spettatore in uno spettacolo emozionante e istruttivo.

Il progetto Grow nasce da studi scientifici che spiegano come l’utilizzo della luce possa favorire la crescita delle piante, riducendo fino al 50% l’uso di pesticidi e fertilizzanti. Così, un campo di porri di 20mila metri quadrati è diventato un’opera d’arte e uno spettacolo mozzafiato. Al crepuscolo, il campo si illumina di onde di luce rosse e blu, in grado di migliorare la resistenza della vegetazione agli attacchi parassitari, promuovendone la crescita.

➝ Leggi anche: Il rosso e il blu nell’arte, un abbinamento dalle proprietà vincenti

arte con la luce e il colore, opera di social design

Urban Sun: proteggere, per incontrarsi

URBAN SUN unisce il design con la scienza per consentire alle persone di incontrarsi in modo più umano e più sicuro. Il progetto era già allo studio del laboratorio di Roosengaarde prima del 2019, ma con l’avvento della pandemia di COVID-19 i lavori sono stati accelerati.

Si tratta di una fonte di luce calibrata per avere un effetto germicida ed essere, allo stesso tempo, in grado di migliorare l’estetica dell’arredo urbano e dell’esperienza che ne deriva. Un vero e proprio sole, fonte di luce, bellezza e salute.  URBAN SUN è stato creato dal team di Roosegaarde, insieme ad esperti esterni e scienziati provenienti da Paesi Bassi, Stati Uniti, Giappone e Italia.

La ricerca mostra che la luce ultravioletta specifica con la lunghezza d’onda di 222 nm può ridurre la presenza di virus, inclusi vari ceppi di coronavirus e influenza, fino al 99,9%. Anche se la tradizionale luce UV a 254 nm è dannosa, questa luce specifica di 222 nm è considerata sicura sia per le persone che per gli animali.

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Il primitivismo: l’arte alla ricerca delle origini

Il primitivismo: l’arte alla ricerca delle origini

“Nell’arte si può cominciare anche da capo, e ciò è evidente, più che altrove, nelle raccolte etnografiche.” Paul Klee

Il primitivismo nell’arte è uno fra gli argomenti che più mi affascinano dell’arte contemporanea.

Quando parliamo di arte primitivista, ci vengono subito in mente pittori come Gauguin o Rousseau (il pittore). Il primitivismo, però, ha molte facce e nei secoli ha assunto significati diversi, alcuni dei quali piuttosto ambigui, legati ad una visione eurocentrica della civiltà. Ma andiamo con ordine.

il primitivismo nell'arte - dal primitivismo ottocentesco ad oggi

Cos’è il primitivismo

Il primitivismo nasce come utopia. Si lega al mito del “Buon selvaggio”, caro a Rousseau (questa volta il filosofo), e specula su un’umanità pura, non corrotta dal progresso. Per primitivi, si intendevano sia gli antenati, e in questo caso si parla di primitivismo cronologico, che i popoli che vivono lontani dalla civiltà occidentale, il che al tempo includeva un po’ tutte le popolazioni che subivano il colonialismo europeo, e in questo caso parliamo di primitivismo culturale. In entrambi i casi, il termine primitivismo non si riferisce alle arti primitive o tribali in sé, ma all’impressione e le suggestioni che queste provocano nell’uomo europeo. 

Giambattista Vico nel 1700 fu tra i primi a sostenere che i popoli “primitivi” fossero più vicini alla fonte dell’ispirazione artistica di noi uomini moderni civilizzati. Vico inaugurò precocemente un dibattito sull’arte che rimase a lungo confinato al pensiero filosofico.

I primitivismo nell’arte: i romantici

Quando toccò agli artisti prendere in mano la questione, era già passato un secolo. I primi primitivisti aderivano a quelle correnti romantiche che, come i preraffaelliti inglesi e i nazareni tedeschi, si sforzavano di superare il dominio classico sull’arte, rivalutando il medioevo alla ricerca di un purismo e di una spontaneità perduta, a loro avviso, con la canonizzazione rinascimentale. Una reazione tutto sommato comprensibile: l’arte rinascimentale italiana aveva sconvolto il mondo con una visione talmente potente, che per un certo periodo tutto, ma proprio tutto, dovette fare i conti con una ingombrante pietra di paragone. Per trovare una strada alternativa, non si poteva far altro che tornare indietro e ricominciare.

Quello che i preraffaelliti e i nazareni non fecero mai, però, è rompere del tutto lo schema compositivo prospettico. 

preraffaieliti: primitivisti romantici
John Everett Millais, Ophelia

Le rivoluzioni del 1800

Nel 1800 accadde qualcosa di rivoluzionario, paragonabile a quello che è stata ai giorni nostri la rivoluzione informatica e internet: l’invenzione della fotografia. La diffusione di immagini realistiche ebbe un impatto che ancora adesso fatichiamo a quantificare. Non racconti e resoconti, non disegni di artisti e di scienziati, non carovane di mercanti con i loro souvenir esotici e i loro campionari bizzarri: per la prima volta, il mondo veniva rappresentato per immagini che, con un azzardo logico enorme, potremmo definire “vere”. 

La rivoluzione fotografica travolse l’arte. Se, da una parte, spinse l’iperrealismo, dall’altra disgregò la luce e la prospettiva. Fu come se, di punto in bianco, all’arte venisse tolto il vincolo della rappresentazione del vero e del verosimile. 

Le prime alternative furono proposte dall’impressionismo e dal puntinismo: ritroviamo la grana della pellicola impressionata dalla luce, la scomposizione di quest’ultima nei colori primari per effetto dell’ottica e la rapidità di esecuzione. Ritroviamo anche quegli effetti che, certamente, dovevano affliggere molte delle immagini fotografiche dell’epoca: le foto erano sì “vere”, ma sovraesposte, buie, sfocate e macchiate dagli acidi, oltre che piene di difetti causati dai supporti e dalle finiture.

Il vero non era perfetto, evviva. A questo, si aggiunse che per la prima volta si cominciava a parlare di geometria non euclidea e chi gli imperi europei avevano ormai instaurato contatti permanenti e semplificati con ogni angolo del pianeta, ed ecco che, nel giro di pochi decenni, i punti di vista si erano moltiplicati.

Monet, padre dell'impressionismo
Impressionismo: Claude Monet, Ninfee

Due facce del primitivismo: Gauguin e Rousseau

In questo mondo dilatato, il primitivismo assunse due facce: quella paternalista, che ancora si fondava sul mito del buon selvaggio, giustificando il colonialismo e una forma accondiscendente di razzismo, e quella che rinnegava il primato culturale europeo, cercando altrove antiche fonti di saggezza e virtù. Questo altrove poteva essere un luogo geografico, oppure il tentativo di recuperare un’ancestrale innocenza, riportandosi indietro nel tempo, alla ricerca dell’archetipo.

È difficile e, a mio parere, fuorviante, cercare di collocare ogni artista in una posizione precisa fra questi due poli. Gauguin (1848-1903), ad esempio, è stato accusato di mascherare razzismo e pedofilia dietro l’idealizzazione del mondo senza peccato che raffigurava. A questo proposito vorrei dire solo che non sono gli artisti ad essere illuminati, solo l’arte lo è: gli artisti possono essere anche delle pessime persone. 

La ricerca di Gauguin fu di tipo filosofico, più che stilistico, il che non significa che il suo stile non ne venne influenzato, soprattutto nell’uso del colore, ma non arrivò agli estremi destrutturanti che il primitivismo conobbe dopo di lui. 

In un certo senso, quella di Gauguin fu una fuga vera e propria, armi e bagagli, dalla civiltà (e moralità) europea che gli andava stretta. 

Negli stessi anni in cui le sue opere circolavano a Parigi, c’erano altri che evadevano dalla società senza muoversi da casa: è il caso di Henri Rousseau (1844-1910), che si ispirava alle vedute tropicali di pittori olandesi (che occupavano il nord del Brasile) per dipingere le sue giungle, con sempre maggior fervore e abbondanza di dettagli. Ingenuo e privo di una preparazione artistica, il doganiere fu deriso dalla critica e salvato dal giudizio di gente come Picasso e Kandinsky, che nelle sue opere leggevano la necessità spirituale di un ritorno alle origini. 

Le opere di Gauguin e Rousseau, per un verso o per l’altro, avevano risonanza a Parigi, insieme a quelle degli impressionisti e degli espressionisti, e sembrava che gli ismi continuassero a nascere come funghi in ogni caffè e ad ogni evento espositivo. Fu un’epoca eccezionale per la capitale francese, e il meglio doveva ancora venire; e il meglio era Pablo Picasso.

Gauguin padre del primitivismo
Paul Gauguin
arte primitivista: henri rousseau
Henri Rousseau

Il fauvismo, l’arte africana e Pablo Picasso

Nel fermento dei primi anni del 1900, vi fu un momento di passaggio che interessò diversi artisti, che di fatto non si identificarono mai in un gruppo o in un manifesto. Questo fenomeno prende il nome di fauvismo, da Fauves, che in francese significa “belve selvagge”. 

Il movimento venne alla luce quando, nel 1905, alcune opere di giovani autori che si distaccavano apertamente dall’impressionismo, vennero esposte nel Salon d’Automne di Parigi. Pare che il critico d’arte Vauxcelles, entrando nella sala, la definì, appunto, una gabbia di belve, scioccato dai colori violenti e dall’immediatezza compositiva delle tele. Fra quelle tele, c’era la donna con cappello di Henri Matisse (1869-1954)

I fauvisti erano ispirati da Gauguin, ma anche dagli espressionisti, da cui però si differenziavano perché disinteressati agli aspetti esistenziali o alla polemica sociale. Si concentravano sul gesto istintivo, abolendo la prospettiva e il chiaroscuro, e facendo uso di colori vivaci e puri. Spremevano i colori direttamente dal tubetto sulla tela per esaltare l’immediatezza dell’atto creativo, ispirandosi all’arte primitiva, in particolare a quella che riconoscevano nei manufatti africani. Si coniava in quegli anni il termine “art négre” per indicare tutte le espressioni artistiche extra europee, incluse quelle asiatiche e dell’oceania. Solo in seguito l’ambito venne ristretto all’arte tribale africana. Matisse era fra gli artisti che più apprezzavano il genere e fu un collezionista di manufatti tribali africani. 

Come si è detto, i manufatti africani, o di altre etnie, non venivano studiati in relazione alle proprie culture, ma ammirati per la loro forma innovativa, senza nessun tipo di approfondimento antropologico o storico. Se ne ricavano impressioni di diverso tipo, avvolte in un alone di mistero che mescolava sacro e profano in un calderone esteticamente travolgente. 

Fu proprio questo calderone fumante, su cui i fauvisti attirarono l’attenzione degli artisti, a impressionare il giovane Pablo Picasso. Nel linguaggio stilizzato e fortemente espressivo delle sculture africane, Picasso vide una potenza totalmente nuova, sganciata dalle leggi prospettiche e dalla fedeltà all’oggetto ritratto, che fu il seme da cui germogliò il cubismo.

Matisse: fauvismo. Donna con il cappello
Donna con il cappello, Henri Matisse
Arte africana e primitivismo - fauvismo
Maschera africana

Pablo Picasso primitivista e cubista

Picasso (1881-1973) fu talmente tante cose, che definirlo un primitivista è come parlare di idraulica definendo Da Vinci (che cmq se ne intendeva: aveva addirittura progettato di deviare l’Arno per far dispetto ai pisani). Ma, sebbene Picasso trascenda il primitivismo, non si può parlarne senza legare il suo nome alla riscoperta dell’origine archetipa dell’espressione artistica.

La precoce formazione artistica di Picasso e le sue incredibili doti come pittore classico, avrebbero fatto di lui un artista di fama mondiale anche senza l’evoluzione avanguardista. Eppure, in lui ardeva un fuoco rivoluzionario e la sua ricerca ha costituito uno spartiacque nella storia dell’arte. 

Di se stesso disse: “A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino”

Come abbiamo detto, una fonte di ispirazione cui attinse a piene mani fu l’arte africana, influenza evidente soprattutto nella sua produzione scultorea. Inizialmente, si dedicò ad opere lignee che esploravano lo stile geometrico e sintetico delle maschere rituali africane.

Il potere delle maschere non smise mai di affascinarlo, tanto che Picasso commentò così un’esposizione che visitò nel 1907: “Le maschere non erano come le altre sculture: erano qualcosa di magico, si ergevano contro tutto, contro gli spiriti ignoti e minacciosi. E io continuavo ad ammirare quei feticci… E capii. Anch’io mi ergo contro tutto. Anch’io credo che tutto è sconosciuto, tutto è nemico”.

Successivamente, le sue sculture si fecero più complesse, anche nell’uso di materiali che includevano, oltre al legno, metallo e ceramica, e nel frattempo succedeva qualcosa di davvero importante nel suo linguaggio pittorico.

Nell’opera giovanile Demoiselles d’Avignon, del 1907, Picasso libera definitivamente la prospettiva, esplodendo le forme sulla tela: questo è insieme un punto di rottura e un punto di partenza. Nello stesso anno, i fauvisti si disgregavano, ma Picasso ne aveva raccolto l’istanza primitivista e l’aveva trasformata in qualcosa di completamente nuovo: il cubismo

Picasso scultore a galleria borghese a Roma
Picasso scultore a galleria borghese a Roma
La favolosa commistione fra le sculture classiche di Galleria Borghese a Roma e quelle primitiviste di Pablo Picasso.
Picasso cubista
Demoiselles d’Avignon, Pablo Picasso – il primitivismo nell’arte e il cubismo

Il primitivismo nell’arte contemporanea: da etnocentrico a universale

A differenza di altri movimenti, come fu ad esempio l’impressionismo, il primitivismo non si lega precisamente ad un periodo storico. La critica al progresso e la necessità di una ritrovata innocenza si rintracciano in tutte le epoche, ed ecco che il primitivismo rinasce in continuazione. 

Oggi, le contaminazioni culturali sono sempre più frequenti, in senso positivo di integrazione e negativo di scontro, anche cruento. Così, alcuni artisti e designer sentono ancora più forte l’esigenza di indagare un paradigma essenziale, che parli all’umanità con un linguaggio condiviso e universale

In questo dibattito, l’artista non si confronta solo con la propria creatività e i propri mezzi espressivi, ma spesso si interfaccia con i processi industriali. Queste interazione danno vita, ad esempio, a un nuovo concetto di produzione artistica che utilizza processi industriali, sia a monte, che a valle della produzione stessa, con la nascita dell’arte del riuso, in cui sono i materiali di scarto a fornire materia prima ed ispirazione. 

Un esempio di queste interazioni lo ritroviamo nella poetica di Francesco Faccin, artista e designer milanese, che ben rappresenta la contaminazione tra industria e ricerca primitivista dell’essenziale, che come risultato sembra instillare l’anima nei manufatti umani. 

In una sfumatura diversa, il graffitismo di artisti come Haring e Basquiat ci racconta di una simbiosi tra simbolismo primitivista e il paesaggio urbano e metropolitano: anche in questo caso, siamo di fronte al tentativo di rinnovare, nell’era industriale globalizzata, la spontaneità del gesto creativo.

Affianco a questo, che potrei definire “animismo industriale”, troviamo anche un primitivismo puro, che cerca nella natura, lontano dall’industria, la sua fonte di materia prima e ispirazione. Che si tratti di una volontà critica nei confronti della società, o semplicemente dell’adesione ad un linguaggio quanto più atavico e universale, il primitivismo naturale è presente e vivo a livello mondiale.

Primitivismo oggi

Vorrei segnalarvi qui due fra i miei artisti preferiti, meno noti di quelli che abbiamo fin qui nominato, ma interessanti per dare uno sguardo al primitivismo contemporaneo:

Anche nella mia produzione artistica sono alla costante ricerca di un linguaggio che esalti l’istinto creativo lontano dalle esigenze realistiche. Alcune tele del Ciclo Nordico ne sono l’esempio.

acrilico su tela - paola vagnoli - artistante - marrone

A proposito di colori, nella ricerca primitivista contemporane, alcuni colori assumono un ruolo importante. Fra questi il nero e il marrone.

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Noi, da occidentali, possiamo apprezzare la bellezza dei colori e la varietà degli ornamenti, ma purtroppo manchiamo della cosa più importante: la comprensione del loro significato.