fbpx
Sonia Delaunay: vivere nei colori

Sonia Delaunay: vivere nei colori

Arte, pittura, pattern design, artigianato, moda… da dove cominciare a parlare di Sonia Delaunay?

Sonia Terk, sposata Delaunay, è una tra le personalità del ventesimo secolo che trovo più ispiranti per il gusto di oggi: non solo è stata un’eccelsa pittrice, ma ha saputo dare lo statuto di arte a ciò che un tempo era visto come semplice artigianato; non solo ha prodotto decine di dipinti, ma ha realizzato anche innovativi abiti e creazioni per la casa, sempre rimanendo fedele alla propria vocazione artistica. Per lei il colore non era semplicemente qualcosa da ammirare sulla parete di un museo, ma una vibrazione costante dentro la quale avvolgersi e vivere. Viveva nei colori infatti, Sonia: in essi vedeva racchiusi non soltanto stimoli visivi ma anche sonori e tattili. Per lei, il colore era il veicolo per recuperare le sensazioni e i suoni delle molte parti d’Europa dove si è trovata a vivere.

Sonia Delaunay, vivere a colori, storia del pattern design

Il viaggio di Sonia Delanaunay, a partire dall’Ucraina.

Sonia nasce a Odessa, una grande città dell’attuale Ucraina, nel 1885. Trascorre poi l’infanzia in un piccolo villaggio ma mostra presto un talento artistico fuori del comune; per questo i suoi genitori decidono di darle un’educazione internazionale. Studia così a Pietroburgo, ma a diciott’anni è già in Germania a perfezionarsi nel disegno; poco più che ventenne arriva a Parigi, la capitale artistica dell’epoca, dove si innamora dell’arte di Gaugin e Van Gogh e se ne fa ispirare. Nel 1910 sposa il francese Robert Delaunay, anche lui artista, intraprendendo al suo fianco un cammino non solo d’amore, ma anche di ricerca. 

All’inizio del ventesimo secolo, l’arte spesso si accompagna alla scienza. Sia Robert che Sonia amano profondamente i colori e studiano insieme le rifrazioni della luce per individuare tinte sempre più vibranti. I due sposi aderiscono a un movimento artistico chiamato cubismo orfico, contraddistinto da un’attenzione al colore e alla geometria accompagnati però da un’aspirazione dinamica che lo apparenta con il più conosciuto futurismo. 

Sonia Delaunay, vivere a colori, storia del pattern design

Dalla pittura alla moda

Il viaggio della vita di Sonia non si svolge solo tra i paesi più artisticamente attivi d’Europa, ma anche tra i grandi cambiamenti sociali e i drammi storici del secolo. Durante la prima guerra mondiale, trentenne, vive in Spagna dipingendo ed esponendo senza sosta; ma con la rivoluzione russa del 1917 le sue entrate familiari sono in crisi e lei ha un disperato bisogno di soldi. È così che inizia a cercare un lavoro più redditizio della pittura e approda a quello che fino ad allora sembrava puro artigianato: la creazione di linee d’abbigliamento. Ma quando si è artisti, lo si è qualunque sia il supporto utilizzato, e così i vestiti di Sonia entrano nella storia del design come vere opere d’arte. Il suo atelier di Madrid veste le signore alla moda ma anche le attrici e le danzatrici dei Ballet Russes.

Sonia Delaunay, vivere a colori, storia del pattern design

Arte e design femministi

Dopo la prima guerra mondiale la donna smette di essere l’angelo del focolare: il dramma che ha portato milioni di uomini al fronte ha aperto alle loro mogli le porte delle fabbriche, dove hanno indossato per la prima volta i pantaloni e si sono rese conto di essere in grado di supportare da sole l’economia dei loro Paesi. Così le donne europee degli anni ‘20, quelle che Sonia Delaunay veste con passione, desiderano mettersi al centro della scena e trovano negli abiti moderni la via per esprimere le loro aspirazioni. Quando nel ‘21 Sonia torna a Parigi, il mondo del design le è entrato dentro e non vuole più lasciarlo: disegna abiti ma anche tessuti d’arredo e persino automobili.

Sonia è ormai famosa, ma non come meriterebbe. E il motivo è semplice: è una donna. Anche se il femminismo ha alzato la testa dopo la Grande Guerra, i passi da fare sono ancora molti. Così lei lotta per il riconoscimento delle donne artiste, prima messe troppo spesso da parte, e nel 1964 riesce finalmente a ottenere una propria retrospettiva al celeberrimo museo del Louvre, la prima dedicata a una donna. Certo, la mostra non è sua esclusiva, essendo dedicata anche al marito: in ogni caso, i due ottengono pari spazio e dignità.

Sonia Delaunay, vivere a colori, storia del pattern design

Le opere di Sonia Delaunay

Sonia Delaunay è ricordata per diversi aspetti, primo tra tutti la capacità di rinnovare l’arte del tessuto e dell’arazzo prendendo spunto dalla pittura. La corrente artistica di cui faceva parte, l’orfismo, si orientava alla ricerca della geometria creando opere di puro colore: ebbene, perché questa novità doveva fermarsi solo alle tele? Trasportando la geometria e la cura delle tinte nei tessuti, l’artista ucraina ha aperto gli occhi dei parigini sulla possibilità di indossare l’arte e di tappezzarne la propria casa. Di Delaunay è rimasto famoso anche l’atelier da cui uscivano abiti “simultanei”: moderni, futuristi, dal taglio semplice e squadrato eppure intrisi di colore, come una continuazione delle sue tele. 

Nel suo libro L’influenza della pittura sul mondo, Sonia spiega che ogni colore a noi visibile è in realtà composto da una miriade di altre tinte, che riunite danno luogo a quella che noi osserviamo. Ma se queste tinte fossero scisse attraverso un prisma potrebbero mostrare allo stesso tempo il loro sottile legame e la loro ricca diversità. Ecco perché l’accostamento di tanti colori per lei non era semplice estetica, ma si basava su una ricerca dei fondamenti essenziali della visione.

Sonia Delaunay nella sua lunga vita (ben 95 anni quasi interamente dedicati all’arte) ha avuto modo di dire la sua in tanti modi: disegnando abiti, tessuti e mobili, certo, ma anche coltivando la pittura ed esponendo opere astratte. Ha collaborato inoltre con molti artisti, dall’amico poeta Blaise Cendrars del quale illustrò un libro fino al dadaista Tristan Tzara con cui realizzò costumi e abiti-poesia. La convivenza di pratiche tanto diverse l’ha fatta entrare nei musei, nei teatri e nelle case: “Amo la creazione più della vita” scrisse “e sento di dover esprimere me stessa prima di scomparire”.

Sonia Delaunay, vivere a colori, storia del pattern design

Come ammirare la sua arte: mostre e libri

Le opere di Sonia Delaunay sono state esposte in gallerie prestigiose: dal Louvre di Parigi alla Tate Gallery di Londra.

Il Musée d’Art Moderne de Paris le ha dedicato una mostra nel 2015, di cui è possibile ammirare alcuni “spezzoni” in questa pagina dedicata.

Fino a giugno 2022 chi avesse la possibilità di fare un viaggio in Danimarca potrà ammirare un’ampia selezione delle sue opere al Louisiana Museum of Modern Art di Humlebæk. In Italia al momento non sono presenti delle mostre dell’artista, ma nel 2021 per diversi mesi le è stata dedicata un’esposizione a Torino, nella galleria Elena Salamon. Speriamo che le sue opere tornino presto a transitare per il nostro Paese!

Per ultima cosa, vorrei segnalare un bel libro per bambini: Sonia Delaunay – una vita a colori. Si tratta di un volume illustrato, edito da FANTATRAC, adatto ai bambini delle elementari: vi si racconta la personalità dell’artista con l’intento di spronare i piccoli a sperimentare col colore.

Potrebbero interessarti:

arte plumaria del brasile: comunicare a colori
L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

Quando i portoghesi arrivarono in Brasile nel XVI secolo, rimasero subito affascinati dai preziosi e coloratissimi ornamenti delle popolazioni locali: tanto che alcuni dei loro re chiesero espressamente di portare a corte copricapi di piume.
Noi, da occidentali, possiamo apprezzare la bellezza dei colori e la varietà degli ornamenti, ma purtroppo manchiamo della cosa più importante: la comprensione del loro significato.

L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

L’arte plumaria è una tecnica diffusa in molte popolazioni indigene americane, ma non solo: consiste nel creare accessori per l’abbigliamento e ornamenti utilizzando piume di uccelli.

È probabile che tutti abbiate visto le corone di piume che indossano gli indiani del Nordamerica in illustrazioni e film western, e forse avete anche in casa un “acchiappasogni” sospeso, con i suoi intrecci di corda e piume, comprato in qualche mercatino etnico.

Questi e pochi altri sono i modi in cui noi occidentali riusciamo a recepire l’arte delle piume, ma in realtà essa è molto più complessa e più ricca di quanto potremmo immaginare.

Tra le popolazioni che hanno fatto dell’arte plumaria il centro della loro estetica spiccano, in particolare, gli indigeni del Brasile. Per loro le piume, con le loro forme e colori, sono un vero e proprio alfabeto e gli accessori di vestiario che creano servono a comunicare messaggi precisi.

arte plumaria del brasile: comunicare a colori

L’arte plumaria in Brasile

Quando i portoghesi arrivarono in Brasile nel XVI secolo, rimasero subito affascinati dai preziosi e coloratissimi ornamenti delle popolazioni locali.

Le popolazioni del Brasile vivevano in un mondo estremamente colorato: il verde della foresta, le tinte accese dei fiori e, ultime ma non ultime, le straordinarie varietà degli uccelli tropicali che cantavano tra i rami.  Le loro piume, spesso, restavano a terra e venivano raccolte. Con esse, si riportava il colore intenso della foresta su quasi ogni oggetto del villaggio: pettini, coprispalla, collane, diademi… col tempo questo tipo di arte ebbe tanta presa sulle popolazioni da spingerle ad allevare tucani e ara, in modo da avere sempre a disposizione le loro piume.

arte plumaria del brasile: comunicare a colori

Colorati come uccelli

Il popolo dei Kayapò ama tanto le piume da utilizzarle non solo negli accessori, ma direttamente sul corpo: le piccole e pregiate piume bianche dell’avvoltoio reale vengono intrecciate tra i capelli nelle giornate di festa. I Bororo allevano gli uccelli e, non contenti dei loro colori naturalmente accesi e potenti, usano sfregare la pelle dei volatili con sostanze irritanti per far crescere le nuove piume con tinte ancora più varie.

arte plumaria del brasile: comunicare a colori

Il significato degli ornamenti: comunicazione a colori

Noi, da occidentali, possiamo apprezzare la bellezza dei colori e la varietà degli ornamenti, ma purtroppo manchiamo della cosa più importante: la comprensione del loro significato. Sì, perché per i brasiliani le piume non sono semplici accessori, ma un vero e proprio strumento di comunicazione.

Con le piume possono rivelare chi sono, a quale famiglia o clan appartengono, se sono sposati, se sono sacerdoti o laici, se sono ricchi o poveri. Alcuni copricapi servono invece per la caccia, come strumento per confondersi nella foresta o come richiamo per gli uccelli. Gli oggetti di cui gli amerindi si circondano sono, quindi, un coloratissimo alfabeto tutto da leggere. 

Particolarmente interessanti sono, in popolazioni come Kayapo-Xikrin, gli ornamenti festivi dei capivillaggio: la loro forma circolare ricorda occhi dei quali le piume rappresentano le ciglia; la loro forma ricorda anche quella del villaggio, le cui capanne sono disposte in cerchio e di cui loro rappresentano idealmente il centro. I colori del copricapo non sono disposti casualmente, ma ognuno ha un significato specifico: l’azzurro rappresenta la piazza centrale del villaggio, il bianco la foresta che lo circonda, e così via.

Le popolazioni brasiliane, tradizionalmente, non posseggono scrittura ma, come hanno notato gli antropologi, riescono a rendere scrittura ogni cosa che li circonda. L’arte è un modo di “scrivere il mondo” dando a ogni elemento naturale un significato preciso e che riesce anche ad evocare il piano spirituale.

arte plumaria del brasile: comunicare a colori

Il “progresso” minaccia l’arte delle piume

Come aveva notato già Levi Strauss nel suo celebre Tristi tropici, le popolazioni indigene del Sudamerica stanno vivendo una profonda crisi culturale e sociale. Il motivo è proprio quello che noi chiamiamo progresso: l’avanzamento delle coltivazioni e dell’industria comporta la distruzione dell’habitat tradizionale e la conversione forzata ai modi di vivere occidentali. Pochi sono i villaggi rimasti e i giovani tendono a lasciarli, trasferendosi in zone “occidentalizzate” per diventare operai o braccianti. 

Il FUNAI (ente nazionale brasiliano per la protezione degli Indios) ha sempre voluto proporre una soluzione intermedia tra la distruzione definitiva dei villaggi e la loro conservazione, tentando di mantenere in vita le antiche tradizioni pur convertendo gli indios ai modi di vita occidentali. Questo, purtroppo, è impossibile. Le tradizioni degli indios, così come la loro arte plumaria, sono tutt’uno con l’ambiente della foresta: se essa ha lasciato il posto ai campi, tutto ciò su cui si basa la vita delle popolazioni non ha più ragion d’essere.

La tecnica di intreccio delle piume può continuare, incoraggiata da sovvenzioni economiche di vario tipo ma, come è già accaduto nell’America del Nord, quando si va a perdere una civiltà si distrugge anche il senso più profondo di un’arte.

Mara Chaves Altan arte plumaria

Arte e design con le piume in Occidente

Alcuni artisti che non provengono dal Sudamerica hanno avvertito il fascino della loro arte plumaria e se ne sono appropriati, facendone un modo d’espressione: è il caso di Mara Chaves Altan, creatrice di stupende maschere con le piume nate da un lungo studio e da un profondo dialogo interiore con l’arte “primitiva”. Chaves, brasiliana, ha iniziato a creare maschere negli anni ‘70 con l’intento di riportare in vita l’arte, già all’epoca perduta, degli indigeni Kayapo. «Una piuma è un uccello e un uccello è un cielo» ha raccontato di recente ai giornalisti «Il mio lavoro nasce dalla natura e si serve di essa per esprimere la mia immaginazione». Anche questa artista contemporanea, insomma, sottolinea l’impossibilità di separare l’arte delle piume dal contesto naturale in cui sono nate: il materiale porta con sé l’eco della foresta amazzonica che l’ha originato.

In Occidente, le piume naturali lasciano spesso il posto a quelle artificiali, prodotte industrialmente. Non sono pochi gli artisti, i designer e gli stilisti che utilizzano questi materiali, che pur nella loro essenza plastica sono in grado di ricordare o addirittura amplificare la leggerezza delle piume vere.

Nelle sfilate di moda relative alla collezione autunno-inverno 2022-23 alcuni giovani stilisti italiani si sono distinti per il loro utilizzo delle piume artificiali: in tinte pastello e cucite in gran massa su maniche o addirittura cappelli, le piume della maison A.C.9 piacciono parecchio alla generazione Z!

Allo stesso tempo prende piede, tra coloro che hanno una buona manualità e vogliono sperimentarsi in un hobby artistico, la moda di dipingere sulle piume servendosi di acrilici e pennellino. Su internet sono disponibili diversi esempi e tutorial: la destinazione finale di questi lavori è il decoro della casa in stile Boho Chic.

Mara Chaves Altan arte plumaria

Arte primitiva e legame con la Natura

Nella varietà delle esperienze artistiche primitive e primitiviste, sacre o dissacrate che siano, il filo conduttore è la comunicazione con la natura e il rispetto per i suoi ritmi vitali. Trovo nell’arte cosiddetta primitiva una forza che ad altre forme di espressione a volte sembra venire meno: è la forza della Terra che si esprime in modo organico e viscerale, puro e immediato, vero e “animale”, nei prodotti culturali umani.

Potrebbero interessarti:

arte plumaria del brasile: comunicare a colori
L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

Quando i portoghesi arrivarono in Brasile nel XVI secolo, rimasero subito affascinati dai preziosi e coloratissimi ornamenti delle popolazioni locali: tanto che alcuni dei loro re chiesero espressamente di portare a corte copricapi di piume.
Noi, da occidentali, possiamo apprezzare la bellezza dei colori e la varietà degli ornamenti, ma purtroppo manchiamo della cosa più importante: la comprensione del loro significato.

Land art: l’arte della, nella, con la terra

Land art: l’arte della, nella, con la terra

La land art o earth art nasce negli Stati Uniti alla fine degli anni ‘60 e si trasforma presto in una corrente internazionale. Il nome stato coniato da un film del 1969 di Gerry Schum, intitolato proprio Land Art, che documentava i lavori dei primi esponenti della nuova disciplina artistica.

Land art, l’impronta effimera dell’uomo

La land art è arte fatta con – e nella – natura: abbandonati i confini della tela e della scultura e uscendo dalla cornice stessa del museo, le opere artistiche iniziano a essere composte direttamente nel paesaggio, in formato macroscopico e con l’utilizzo di materiali ed elementi naturali. L’idea è che l’artista lasci sulla terra una propria impronta, spesso effimera come lo è il paesaggio, il quale continuamente muta sotto la spinta degli agenti atmosferici. In questo modo l’uomo riconosce se stesso come parte della terra ma, allo stesso tempo, ammette la propria piccolezza.

LAND ART l'arte che si fa con la natura: storia di un genere

Spiral Jetty: fragilità e forza della land art

I primi artisti della land art esploravano territori che li affascinavano particolarmente e raccoglievano sul posto materiali, prevalentemente rami e rocce, creando con essi composizioni perfettamente integrate nell’ambiente. Nel 1970, Robert Smithson aggiunge alla spontaneità iniziale del movimento una forte componente di pianificazione, creando la sua opera più famosa e impegnativa: Spiral Jetty. Si tratta di una enorme spirale creata sulle rive del Grande Lago Salato dello Utah e composta da cristalli di sale, sabbia e rocce basaltiche. L’idea originale era di creare una spirale che incorniciasse una piccola isola artificiale, ma poi fu realizzata una figura più semplice.

Spiral Jetty, che è ancora oggi un’attrazione turistica molto frequentata, ha dovuto affrontare come ogni opera di land art diversi pericoli: primo, l’intenzione di alcuni amministratori locali di cancellarla per destinare il terreno ad altri usi; secondo, l’innalzamento del livello dell’acqua del Lago Salato, che per alcuni decenni ha sommerso completamente la spirale. La storia di Spiral Jetty illustra la forza e la fragilità della land art in cui le opere, completamente in balìa degli elementi naturali o della rapacità umana, sono destinate a rimanere documentate più che altro dal loro ricordo fotografico o filmato. Allo stesso tempo la loro grandezza, che le rende visibili da molto lontano e persino in volo, le rende in grado di trasformare la percezione del paesaggio e anche, auspicabilmente, di proteggerlo dalle mire economiche della civiltà industriale.

Land Art: il Cretto di Burri

Evoluzione della land art

Man mano che la corrente cresceva, gli artisti di land art iniziavano a interagire con il paesaggio in modo sempre più personale, anche aggiungendo materiali non presenti in loco. Ad esempio, l’opera del ‘77 Lighting field di Walter De Maria era composta da 400 aste in acciaio piantate nel terreno per attirare i fulmini. Sulla stessa linea sono i Padiglioni di Dan Graham, costruiti dopo il 1978, che invitano i visitatori di parchi e giardini a camminare dentro grandi strutture in vetro.

L’abitudine di portare in contesti paesaggistici materiali estranei creando con essi opere gigantesche porta fino a Christo, artista bulgaro divenuto celeberrimo per i suoi “impacchettamenti”: ha iniziato nel 1961 avvolgendo con ampi teli in plastica dei barili di petrolio, fino a rivestire addirittura la scogliera di Little Bay in Australia e l’Arco di Trionfo di Parigi. Ma l’idea di ricoprire con un materiale “importato” costruzioni naturali o umane era già venuta ad Alberto Burri nel 1968, quando rivestì con del cemento le rovine del paese di Gibellina, distrutto dal terremoto del Belice, creando una delle più grandi opere di land art in Italia.

Oggi si considerano come appartenenti alla corrente della land art anche opere d’arte apparentemente più tradizionali, come sculture realizzate in materiali vari, ma inserite dialetticamente nel paesaggio che le ospita.

Arte all’aperto = land art?

La land art è un tipo peculiare di arte site specific, una locuzione che indica quelle opere create appositamente per un luogo. Ha un grandissimo fascino e un altrettanto grande potenziale di attrazione turistica: per questo la denominazione viene sfruttata, a volte, per il suo potenziale commerciale. Perché un’opera sia inserita a pieno titolo nella corrente artistica della land art non deve soltanto trovarsi in mezzo al paesaggio, ma deve prendere ispirazione da esso e rapportarvisi in un modo nuovo e speciale. Ecco perché un lavoro di land art può essere anche una scultura, ma molto più spesso è una installazione: l’intento non è mettere nel paesaggio un’opera da ammirare ma costruire l’opera nel e con il paesaggio. Per questo tale forma d’arte, nata più di cinquant’anni fa, è ancora così rivoluzionaria.

Parchi dedicati alla land art in Italia

Oltre alla già citata opera di Burri, nel nostro Paese esistono diversi musei a cielo aperto che ospitano opere immerse nella natura. Possono tutte essere inserite nel genere land art? Forse no, ma hanno comunque un legame molto forte con la natura e il paesaggio che le ospita, quindi ho voluto farne una carrellata, da Nord a Sud. Alcune le ho visitate, altre ancora non le conosco, e quindi questa lista è anche una pagina di appunti per possibili viaggi.

LAND ART l'arte che si fa con la natura: storia di un genere

Arte Sella e Respirart – Trentino Alto Adige

Il Trentino Alto-Adige, una regione che deve gran parte della sua economia al rapporto tra gli abitanti e la natura montana, è stato tra i pionieri della land art in Italia. Arte Sella, un percorso tra sessanta opere immerse nella natura della Valsugana, esiste fin dal 1968: sono esposte en plen air opere di artisti come Giuliano Mauri o Michelangelo Pistoletto. 

Respirart, uno tra i luoghi d’arte più alti al mondo, propone invece ai visitatori un percorso immersivo e meditativo tra opere in materiali naturali commissionate ad artisti italiani ed internazionali come Patrizia Giambi e Hidetoshi Nagasawa.

Oasi Zegna – Piemonte

A poca distanza dal paese di Trivero, dal 2007 la fondazione Zegna promuove e ospita installazioni permanenti di land art. Nell’Oasi Zegna è possibile ammirare installazioni site specific come le Banderuole colorate di Daniel Buren, l’orologio a vapore progettato da Roman Signer o i Telepati di Stefano Arienti. Al termine del percorso proposto si giunge a un padiglione in vetro e acciaio, realizzato da Dan Graham, che riflette allo sguardo degli spettatori i colori della natura nelle sue diverse stagioni.

Rossini Art Site – Lombardia

A Briosco, non lontano da Monza, dagli anni ‘50 il mecenate Alberto Rossini ha deciso di ospitare nel suo parco le opere degli scultori emergenti in grado di superare il “vecchio” stile figurativo. I dieci ettari del parco sono diventati così un museo a cielo aperto, ricco di sculture provenienti dall’Italia e dall’estero.

LAND ART l'arte che si fa con la natura: storia di un genere

Il Giardino dei Tarocchi – Toscana

Nei pressi di Capalbio, immerso nella natura della Maremma, si trova il Giardino dei Tarocchi, il capolavoro di Niki de Saint Phalle. La sua costruzione è iniziata nel 1979 ed è proseguita per  molti anni. Solo nel 1998 il giardino ha aperto al pubblico.
L’artista ha creato strutture monumentali, esplorabili e vivibili, a partire da scarti di latterizio, pietre, maioliche e cemento. La fragilità dell’opera impone continui restauri.

La casa degli artisti del Furlo – Marche

Questa “casa” è un ritrovo irrinunciabile per gli artisti italiani che lavorano con la land art: promuove il concetto di arte sostenibile attraverso residenze creative e mostre che ogni anno arricchiscono e animano il grande parco della residenza.

LAND ART l'arte che si fa con la natura: storia di un genere

Il giardino dei mostro di Bomanzo – Lazio

Questa “casa” è un ritrovo irrinunciabile per gli artisti italiani che lavorano con la land art: promuove il concetto di arte sostenibile attraverso residenze creative e mostre che ogni anno arricchiscono e animano il grande parco della residenza.

Le Pietre sonore e il Giardino fantastico – Sardegna

Nel borgo di San Sperate, non lontano da Cagliari, si possono incontrare oltre a splendidi murales tante sculture e installazioni d’arte. Spicca, tra queste, un giardino di megaliti realizzato da Pinuccio Sciola, ideatore di sculture dette Pietre Sonore, che sono presenti qui ma in passato hanno fatto il giro dei musei di tutto il mondo. Poco lontano si può visitare il Giardino fantastico di Fiorenzo Pilia, una collezione di opere realizzate con materiali di recupero in pieno dialogo con la natura.

Il Parco internazionale della scultura – Calabria

A pochi passi dal centro di Catanzaro, questo parco di venti ettari accoglie le sculture di alcuni tra i più noti artisti internazionali,  da Daniel Buren a Jan Fabre, da Antony Gormley a Mimmo Paladino. Si tratta di una tra le più ricche collezioni di arte scultorea all’aperto in Italia.

Potrebbero interessarti:

arte plumaria del brasile: comunicare a colori
L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

Quando i portoghesi arrivarono in Brasile nel XVI secolo, rimasero subito affascinati dai preziosi e coloratissimi ornamenti delle popolazioni locali: tanto che alcuni dei loro re chiesero espressamente di portare a corte copricapi di piume.
Noi, da occidentali, possiamo apprezzare la bellezza dei colori e la varietà degli ornamenti, ma purtroppo manchiamo della cosa più importante: la comprensione del loro significato.

Heitor Dos Prazeres e il samba a colori

Heitor Dos Prazeres e il samba a colori

Eu sou carioca boêmio e sambista, meu sangue é de artistas, não posso negar.

Questa storia è l’incipit di una storia più grande, anzi, di molte storie, e quindi racchiude in sé tutti gli ingredienti più saporiti: passione, dolore, miseria, musica, arte, colore, carne, vita e morte. È la storia di un personaggio che è in sé il manifesto di un’epoca, l’anello di congiunzione tra due ere drammaticamente distinte, eppure non così diverse.

Heitor dos Prazeres, samba, musica e arte del pittore primitivista brasiliano

Il Brasile alla fine del XIX secolo: l’abolizione della schiavitù

Con queste premesse, capite bene che è difficile individuare il punto di partenza, quindi ne ho scelto uno ufficiale e altisonante, che possa darci l’impressione (attenzione, solo l’impressione) di uno spartiacque definitivo. Siamo nel 1888, a Rio de Janeiro, allora capitale del Brasile: la Lei Áurea del 13 di maggio ha finalmente decretato la fine della schiavitù.

Heitor dos Prazeres, samba, musica e arte del pittore primitivista brasiliano

Il problema con l’abolizione è che cancella la schiavitù, ma non gli schiavi. I nuovi liberi saranno pure liberi, ma hanno poco e niente per vivere. A Rio de Janeiro, vengono messi a disposizione delle “casas de cômodos” intorno alla famosa Praça 11 de Juhno, nel nuovo centro città, ricavato da una zona un tempo pantanosa. In queste case si affollano gli ex africani, ex schiavi e nuovi cittadini brasiliani.

Heitor dos Prazeres, samba, musica e arte del pittore primitivista brasiliano

Praça 11, dove il samba e la favela hanno inizio

Agli schiavi liberati di Praça11 si uniscono i soldati sopravvissuti alla guerra con il Paraguay e a quella che è stata chiamata la Guerra dos canudos, un tragico conflitto tra lo stato Brasiliano e una autoproclamata repubblica sorta nel nord del paese, ad opera di un mistico, metà profeta di Cristo e metà socialista.  

Lo spazio non era poi molto e alle abitazioni già costruite se ne aggiunsero altre, sempre più numerose e sempre più povere, che, una volta occupata tutta la pianura, dovettero arrampicarsi lungo le pendici dei monti. La collina così gremita fu battezzata, proprio dai superstiti della Guerra dos canudos, Morro da Favela, in ricordo della collina che sovrastava la loro libera città-repubblica nel nord. Ironico e profetico: ancora oggi, il nome Favela designa le baraccopoli in tutto il mondo.

Heitor dos Prazeres, samba, musica e arte del pittore primitivista brasiliano

Heitor doz Prazeres e la musica

Non sono passati neppure 10 anni dall’abolizione della schiavitù, quando Heitor dos Prazeres viene al mondo in una famiglia povera e numerosa, figlio di un mercenario un po’ musicista e di una sarta. Rimane orfano presto, a soli 7 anni, e già lavora con quello che trova: distribuisce giornali, scarica merci, esegue piccole commissioni. Heitor va anche a scuola, qualche volta, ma non impara mai a leggere e a scrivere. Da vecchio dirà che non non si era mai sforzato, perché a lui interessavano solo i colori, ma andiamo con ordine.

Heitor è povero, orfano, completamente analfabeta, ma ha uno zio musicista. A 12 anni gli regala il suo primo cavaquinho e lui già suonava molto bene lo strumento di suo padre, il clarinetto. Immaginate già il finale, vero? La musica salva il piccolo orfano che, grazie all’intervento del deus ex machina in forma di zio sambista, trova la passione, la salvezza e la notorietà. Heitor non diventa solo un buon musicista, ma l’anima del samba tradizionale carioca. La sua discografia è sconfinata, i suoi pezzi fondano un genere che aveva appena iniziato a prendere piede e lo fa uscire dai ghetti neri della Favela. A lui si deve anche la nascita di Portela, una delle più blasonate scuole di samba del Brasile, quella il cui inno è tutt’oggi lo spirito stesso del carnevale.

Heitor dos Prazeres, samba, musica e arte del pittore primitivista brasiliano

Heitor dos Prazeres e la pittura

Già così è una bella storia, ma Heitor ha troppa passione in corpo per limitarsi alla musica.  Dirà di se stesso che il suo nome, dos Prazeres, “dei piaceri”, lo descrive come pieno di piacere e amore per il suo popolo, per quella moltitudine gremita e tragica che abita Praça 11, per la carne stessa dell’umanità.

Heitor dos Prazeres, samba, musica e arte del pittore primitivista brasiliano

Dagli anni 30, soprattutto dopo la morte della moglie, Heitor dipinge con grande trasporto scene tratte dalla vita quotidiana di quel popolo che gli scorre nelle vene. Sono scene primitiviste e naif, che ritrae a memoria perché, dice lui, non ha bisogno di modelli da copiare: ogni persona, ogni gesto, ogni  momento che descrive è in lui. Musica e samba sono sempre presenti: i personaggi dei suoi quadri sembrano danzare anche quando sono intenti a lavorare, coltivare, passeggiare, e lui li ritrae tutti a testa alta, con lo sguardo rivolto al cielo.

Heitor dos Prazeres, samba, musica e arte del pittore primitivista brasiliano

Esiste questo breve documentario del 1965 dove è possibile ascoltarlo mentre parla della sua pittura e suona il suo samba. Non l’ho trovato sottotitolato, ma vi consiglio di guardare almeno qualche minuto, per farvi contagiare da quello spirito profondamente triste e leggero, che sprigiona immenso amore. Indubbiamente, questa è l’anima del samba, e un po’ di tutta l’arte: una tragedia a colori.  

Heitor muore nel 1966, a 68 anni.

Note:

La Guerra dos canudos è stata raccontata dal premio nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa, nel suo “La guerra della fine del mondo”.

Heitor dos Prazeres, samba, musica e arte del pittore primitivista brasiliano
Heitor dos Prazeres, samba, musica e arte del pittore primitivista brasiliano
Heitor dos Prazeres, samba, musica e arte del pittore primitivista brasiliano
Heitor dos Prazeres, samba, musica e arte del pittore primitivista brasiliano

Potrebbero interessarti:

arte plumaria del brasile: comunicare a colori
L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

Quando i portoghesi arrivarono in Brasile nel XVI secolo, rimasero subito affascinati dai preziosi e coloratissimi ornamenti delle popolazioni locali: tanto che alcuni dei loro re chiesero espressamente di portare a corte copricapi di piume.
Noi, da occidentali, possiamo apprezzare la bellezza dei colori e la varietà degli ornamenti, ma purtroppo manchiamo della cosa più importante: la comprensione del loro significato.

Marion Dorn: una pittrice e scultrice di tessuti

Marion Dorn: una pittrice e scultrice di tessuti

Marion Dorn - storia del pattern design

Se tra gli anni ‘30 e ‘40 aveste preso la metropolitana di Londra e l’aveste usata per fare la spola tra gli hotel più importanti e lussuosi della City, vi sareste trovati circondati ininterrottamente delle opere di Marion Dorn. Questa designer tessile, nata in America, ma trasferitasi in Gran Bretagna nei primi anni ‘20 del secolo scorso, ha davvero dato forma al gusto e agli spazi della contemporaneità: i suoi tappeti, le sue moquettes, le sue carte da parati sono stati apprezzati dai grandi architetti, dalle famiglie più alla moda e anche dalle amministrazioni cittadine del suo tempo. Dai copri sedili della metropolitana fino alle hall più raffinate, le opere di Marion Dorn cullavano lo sguardo dei londinesi e dei visitatori da tutto il mondo.

Marion Dorn - storia del pattern design

Gli esordi: il Batik

La storia di Marion inizia a San Francisco, dove nel 1919 sposa il suo maestro e collega Henry Varnum Poor. Entrambi erano designer dalla mente brillante che non volevano limitarsi al campo ristretto dei loro studi universitari (lei era artista grafica, lui pittore) ma avevano voluto andare oltre. Henry realizzava affreschi molto apprezzati ma anche ceramiche e persino progetti architettonici; Marion creava illustrazioni, ma poi scoprì nei tessuti la sua grande passione. Quando gli sposi decisero di trasferirsi a New York subito dopo il matrimonio, lei era una apprezzata creatrice di Batik. 

Il batik è un tipo di tappeto che ha origine in Indonesia, ed è molto interessante perché rappresenta una via di mezzo tra l’artigianato tessile e la pittura: infatti, in indonesiano, batik deriva dalle parole amba (scrivere) e titik (goccia): “scrivere con le gocce”. Per colorare un tappeto chi pratica il membatik, cioè il design dei batik, impregna alcune parti del tessuto con un impasto alla cera. In questo modo le aree impregnate non si coloreranno, perché le fibre del tessuto così trattate impediranno il passaggio del colore. Dopo aver passato la cera creando un disegno invisibile, l’artista immerge il tappeto in un bagno di colore. Successivamente toglie la cera con un ferro caldo e ammira il disegno compiuto, che compare sul tappeto come se fosse un negativo fotografico.

Da New York a Londra, dal Batik ai tessuti stampati

Dopo qualche anno a New York, Marion Dorn vede cambiare la sua vita all’improvviso: incontra la sua vera anima gemella, che non è il marito che aveva seguito fino ad allora ma un brillante illustratore, scenografo e grafico: Edward McKnight Kauffer, apprezzato poster designer a cui gli Stati Uniti iniziano a stare un po’ stretti. Con lui, Marion trova il grande amore, ma anche una città adottiva che le garantirà il successo: Londra. Dal suo arrivo, nel ‘23, la designer americana trova stimoli nuovi e anche quegli agganci che la porteranno al successo.

A Londra Marion continua a creare batik, ma stampa anche sulla seta e sul lino. Nel 1925, la prima consacrazione: cinque dei suoi tappeti compaiono sulla prestigiosa rivista Vogue. I suoi tessuti dal design moderno da allora fanno letteralmente girare la testa ai londinesi: iniziano a decorare i negozi più raffinati della City ma anche gallerie e musei. A partire dal ‘34, quando Marion fonda una vera e propria azienda con tanto di marchio, arrivano le commissioni più importanti: hotel di lusso, come dicevamo prima, ma anche metropolitane.

Marion Dorn - storia del pattern design

Lo stile di Marion Dorn e il futuro del pattern design

Ma cosa avevano di tanto speciale i suoi design? Erano creazioni al passo coi tempi, aperte al futuro: le linee spesse che attraversavano i suoi tessuti creavano geometrie solide e vigorose; anche gli elementi naturali come fiori, foglie e uccelli venivano sublimati e inscritti in geometrie regolari e pulite, ma allo stesso tempo mesmerizzanti. Marion Dorn è nota anche per i suoi tappeti “scolpiti”, nei quali il disegno non era ottenuto tramite il colore ma con un processo simile al bassorilievo: il pelo lungo era attraversato da solchi che, proprio come incisioni nella pietra, creavano geometrie rivelate dal gioco di luce ed ombra sulla superficie.

Marion Dorn - storia del pattern design

Gli utimi anni

Nel 1950, dopo anni trascorsi fianco a fianco, Marion ed Edward si sposarono e decisero di tornare negli Stati Uniti, prendendo casa a New York. Purtroppo Edward morì poco dopo, nel 1954. Nel ‘57, arriva per Marion uno degli ultimi successi: viene eletta membro onorario della British Society of Industrial Artists per i contributi che le sue opere avevano dato al design tessile nazionale. Negli anni ‘60 Marion decide di trasferirsi in Marocco, forse per trascorrere gli anni della vecchiaia in una terra più calda e assolata, ma forse anche per rimanere circondata da una cultura del tessile antica ma vibrante come quella nordafricana. Nel 1964 Marion Dorn muore a Tangeri.

Naturalmente, il suo lavoro continuò ad ispirare l’industria tessile mondiale, a partire da altre donne, come lei immigrate in Inghilterra per applicare la loro arte all’industria. Parlo ad esempio di Marianne Straub.

Marion Dorn - storia del pattern design

Dove ammirare le sue opere

Dove andare a caccia delle opere di Marion Dorn? Prima di tutto, nel prestigioso Albert & Victoria Museum di Londra: nella collezione tessile del museo e anche nel catalogo online è possibile trovare diversi esempi di tessuti stampati dalla nostra designer. Andiamo dai parati in tinte chiare e con ispirazioni floreali fino ai tappeti più geometrici e astratti. 

Nel museo dei trasporti di Londra, poi, si possono ancora ammirare le moquettes che Dorn realizzò per il servizio pubblico: dalle prime grafiche basate sul contrasto tra il rosso e il nero fino alle più “riposanti” moquettes in toni marroni e verdi degli anni ‘40. Secondo la direzione del museo, le moquettes della Dorn sono decisamente di rottura rispetto a quello che era lo standard precedente, monotono e generico, e rappresentano quindi l’ingresso del design anche negli spazi pubblici prima sottovalutati. 

Esistono infine alcune pubblicazioni realizzate da Dorn in collaborazione con il suo compagno di vita, Kauffer: nel 1928, ad esempio, i due pubblicarono un libro che riportava i loro design per tappeti più riusciti.

Perché questa artista ci piace così tanto?

Prima di tutto per le sue deliziose geometrie, per i tappeti di design che ancora oggi ispirano quelli che ritroviamo poi nelle nostre case; per la capacità di andare oltre all’artigianato puro e semplice, portando l’arte dentro i tessuti; e anche un po’ per quell’energia tutta femminile che l’ha saputa elevare a figura di successo anche rispetto ai propri compagni uomini, portandola a gestire anche le commissioni più importanti con rigore organizzativo da un lato e con costante cura artistica dall’altro. Quando parliamo di Marion Dorn parliamo di design “industriale” che si fa pittura e scultura: e questo è ciò che ci piace di più.

Potrebbero interessarti:

arte plumaria del brasile: comunicare a colori
L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

Quando i portoghesi arrivarono in Brasile nel XVI secolo, rimasero subito affascinati dai preziosi e coloratissimi ornamenti delle popolazioni locali: tanto che alcuni dei loro re chiesero espressamente di portare a corte copricapi di piume.
Noi, da occidentali, possiamo apprezzare la bellezza dei colori e la varietà degli ornamenti, ma purtroppo manchiamo della cosa più importante: la comprensione del loro significato.

Personaggi a colori: il significato del colore nella narrazione

Personaggi a colori: il significato del colore nella narrazione

Sebbene non abbiano un significato univoco, i colori sono in grado di suggerire emozioni e, in alcuni casi, possono farsi carico di una parte della narrazione, come un vero e proprio sottotesto. In un romanzo, se il narratore si prende la briga di specificare il colore di un dettaglio, ad esempio un vestito, non sceglierà mai un colore a caso: vuole comunicarci qualcosa.

Affidare la comunicazione ai colori, però, potrebbe essere rischioso. In epoche diverse, in culture diverse, i colori assumono significati molto distanti fra loro. Anche facendo riferimento ad una sola epoca, diciamo la nostra, e alla sola cultura occidentale, non è detto che un singolo colore conservi lo stesso significato in tutte le situazioni.

Nonostante la difformità delle possibili interpretazioni, registi e romanzieri si affidano al colore secondo canoni che è facile intuire. Alcune scelte possono essere molto dirette, come il bianco per la purezza positiva e il nero per la malvagità, mentre altre sono più sottili o stratitificate, ma ugualmente efficaci.

Eroine a colori

Quando vengono raccontate storie di donne, capita spesso che l’abito diventi in qualche modo una parte importante della trama, soprattutto quando il romanzo viene trasposto in pellicola, ma non necessariamente.

Madame Bovary e il colore blu

Guidata da Riccardo Falcinelli, che in Cromorama dedica un capitolo al Blu Bovary, ho spulciato sul web le copertine di diverse edizioni del celebre romanzo di Flaubert e ho trovato questa, che mi sembra perfetta.

Emma Bovary e il colore blu

Alla sua prima apparizione nel romanzo, Emma appare al futuro marito, il medico Charles Bovary, vestita con un abito di lana blu, anzi, “turchino”, nella traduzione di Pavese. Emma ha i capelli e gli occhi scuri, al punto che qua e là Flaubert li descrive con riflessi bluastri, rimandando in questo caso all’accezione tenebrosa del blu, ma quando Emma acquista per sé vestiti e suppellettili di pregio (due abiti , uno di seta e uno di lana, e due vasi di vetro, acquistati a Rouen), li sceglie sempre di colore “turchino”, per la luce nobile e l’aristocratico valore della tinta blu in epoca romantica.

Nonostante nel 1706 fosse stato scoperto il Blu di Prussia, uno fra i primi pigmenti chimici utilizzati in ambito industriale, a metà ‘800 i tintori acquistavano ancora l‘indaco di importazione per i tessuti pregiati, che avevano quindi un costo elevato.

Il blu dei vasi di vetro, con cui Emma decora il camino di casa Bovary, erano probabilmente tinti con il cobalto, come le vetrate delle chiese gotiche, e costituiscono il suo tocco di classe alla casa, rappresentando la sua ambizione sociale, il suo desiderio di far parte di un mondo lontano e aristocratico.

Desiderando oggetti blu, Emma fugge dalla vita di provincia. Quando i debiti e gli abbandoni subiti dai suoi amanti diventano insopportabili, si uccide, attingendo l’arsenico da una bottiglia di vetro. Indovinate di che colore? Esatto, vetro blu.

significato del verde - rossella o'hara - blog colore

Il rosso e il verde di Via col vento

Il nome Rossella è un adattamento italiano del nome Scarlett. Fa subito pensare al colore rosso, che rimanda al temperamento della donna e alla chioma scura, che probabilmente aveva riflessi mogano, data la sua origine irlandese. L’attrice scelta per impersonarla nel celebre film del 1938, Vivien Leigh, ha un perfetto incarnato chiaro, gli occhi verdi e i capelli scuri che ci si aspetta. Vuoi perché dona all’incarnato dell’attrice, vuoi perché rimanda alle origini irlandesi del personaggio, il verde è senza dubbio il colore che ha reso immortali gli abiti di Rossella O’Hara. Fra tutti, il più iconico è quello che Rossella, in ristrettezze economiche, ricava dalle tende di velluto verde per sfoggiare modi aristocratici, mentre sta in realtà chiedendo un prestito.

il colore verde in via col vento

Ma cosa significa questo verde? Da una parte, il verde è la rinascita, la crescita, la fase formativa di un personaggio. Fa pensare alla speranza, eppure il verde ha anche un’accezione ambigua, legata al gioco d’azzardo e alla sorte in generale, non necessariamente buona. E in fondo Rossella è proprio questo, una giocatrice cinica, che alla fine non vince il banco, ma che, come in un gioco, è pronta a ricominciare.

I personaggi Disney e i colori morali

 

Venngage, che si occupa di grafica e colore applicati al marketing e alla comunicazione in generale, ha raccolto alcuni dati sui colori utilizzati dalla Disney per i personaggi nei lungometraggi animati. Ne vengono fuori situazioni piuttosto ovvie che possono valere come paradigma generale.

Ecco un grafico tratto dalla loro analisi.

 

Grafico colori dei personaggi disney

FONTE: VENNGAGE

Giallo, Arancio, Rosso

Come vedete, sul giallo, che è luce, c’è poco da discutere.

Molto più interessante è il rosso, che rappresentando un carattere passionale e determinato, può trovarsi associato sia a personaggi positivi che negativi.

Blu e viola

Le sfumature di blu e viola rappreentano la nobiltà, il potere, il lusso e l’aristocrazia, e sono disposte in modo che, passando dal celeste della fatina, al blu scuro, e poi al viola di Malefica, mano mano si mescolino sfumature che vanno dall’assolutamente buono al malvagio, con alcune sovrapposizioni.

Verde

Il verde è sostanzialmnte positivo e molto usato nelle fasi di formazione: la Sirenetta, Merida di Brave e Mulan vestono di verde e affronteranno un percorso di crescita che le porterà a trasformarsi da bambine in eroine.

Bianco e Nero

Se il nero è monopolio dei cattivi, la parità del bianco potrebbe stupirci, ma pensateci bene: a volte i lupi si vetono da agnelli e la malvagità si cela dietro a paramenti immacolati e ad una disciplina ferrea, che, alla fine, quasi combacia con una mancanza totale di moralità, come nel caso di AUTO in Wall-E.

Fuori dal mondo Disney, questo aspetto del bianco ritorna in continuazione: pensate a Saruman nel signore degli anelli o al gatto bianco accarezzato dal capo della Spectre e, infine, ai capelli candidi dei Targaryen saga fantasy Cronache del ghiaccio e del fuoco di George R. R. Martin.

Potrebbero interessarti:

arte plumaria del brasile: comunicare a colori
L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

Quando i portoghesi arrivarono in Brasile nel XVI secolo, rimasero subito affascinati dai preziosi e coloratissimi ornamenti delle popolazioni locali: tanto che alcuni dei loro re chiesero espressamente di portare a corte copricapi di piume.
Noi, da occidentali, possiamo apprezzare la bellezza dei colori e la varietà degli ornamenti, ma purtroppo manchiamo della cosa più importante: la comprensione del loro significato.

Cromoestesia: si possono sentire i colori?

Cromoestesia: si possono sentire i colori?

che cosa è la cromoestesia: il color e la sinestesia

Un verde può essere davvero acido e l’arancio può avere il profumo dei mandarini o dei fiori di campo. Non è solo poesia: stiamo parlando di cromestesia, una particolare capacità sensoriale. Chi la prova riesce a sentire il suono o il gusto dei colori, associa cioè in modo automatico, intuitivo e involontario un dato visivo a uno proveniente da altri sensi. 

È molto comune anche  l’inverso, ossia associare ad uno stato d’animo o ad un concetto astratto un colore preciso, e non solo per pura associazione di idee, ma proprio come se si trattasse di una sensazione fisica. Ad esempio, febbraio è viola ed io ho rinunciato ad acquistare un’agenda che me lo proponeva in celeste, perché mi avrebbe confuso le idee. Per di più, nella stessa agenda ottobre era marrone, bravi, come le castagne, ma ottobre è blu, il marrone semmai è agosto: vi rendete conto della confusione? 

Che cosa è la Cromoestesia?

La cromestesia è il sottotipo “colorato” di una condizione medica chiamata sinestesia. Non si tratta di una malattia, bensì di una particolare conformazione neurologica: in chi è affetto da sinestesia le parti del cervello preposte ai sensi comunicano tra loro in maniera del tutto particolare. Ecco che allora è possibile sentire il gusto di un colore o ascoltarne il suono. La sinestesia “naturale” è una particolarità molto rara, che interessa tra lo 0,05% ed il 4% della popolazione mondiale; può essere anche indotta artificialmente, come effetto collaterale di determinati farmaci o droghe (ad esempio l’LSD).

La cromoestesia nell’arte

Uscendo dall’ambito scientifico, capiamo subito quanto la cromestesia possa dare stimoli estetici dirompenti in chi osserva o crea opere d’arte. Per un artista cromestetico i colori assumono un tono emotivo e una concretezza assoluti e le sue opere ne saranno inevitabilmente influenzate. Anche se la maggior parte di noi non potrà percepire i colori sulla tela come li “sente” un creatore cromestetico, è però sicuro che parte dell’emozione originaria trapelerà dal quadro e riuscirà a contagiare anche gli spettatori. 

Artisti con il dono della cromestesia

Sarete curiosi di sapere se, tra gli artisti famosi degli ultimi secoli, ce ne sia stato qualcuno con il dono della cromestesia! La risposta è sì, e alcuni nomi famosi devono certamente parte del loro successo a uno straordinario feeling con il colore e la musica. Vediamone alcuni.

Vincent Van Gogh (1853-1890)

Chi non ha mai provato fascino e stupore per i vibranti colori di Van Gogh, i quali ancor oggi suscitano in noi forti emozioni? In anni recenti, l’associazione americana di sinestesia (ASA) ha analizzato gli scritti e le lettere del famoso pittore per determinare se avesse percezioni di tipo sinestetico: ne è emerso che effettivamente Van Gogh aveva il dono della cromestesia. Nelle lettere al fratello Theo, Vincent descrive i colori come stimoli sia visivi che uditivi: egli sentiva suoni acuti nei colori più intensi. A un certo punto della sua vita Van Gogh decise di studiare musica, ma le sue prime esperienze con il pianoforte lo misero a disagio: ogni nota sulla tastiera restituiva prepotentemente ai suoi sensi la vista di un colore. Forse Van Gogh è tra i più alti esempi di cromestesia applicata all’arte, perché ancora oggi nelle sue tele rimane traccia delle forti percezioni sensoriali che lo ispirarono.

E forse una cromoestesia così “invadente” spiega anche alcuni suoi comportamenti ossessivi. Trovate qui un articolo interessante che cerca di distinguere tra sinestesia e allucinazioni, indagando sulle possibili conseguenze psicologiche di una sinstenesia profonda.

cromoestesia nell'arte

Mikalojus Konstantinas Čiurlionis (1875-1911)

Questo artista è molto famoso in Lituania, la sua madrepatria, ma ancora poco conosciuto da noi. Eppure fu uno straordinario pittore e compositore.  Čiurlionis visse in un’epoca dominata dalla corrente artistica del simbolismo, per la quale la sinestesia era un ideale da raggiungere: la possibilità di mescolare i sensi per arrivare a una percezione “totale” di un quadro o di uno spartito musicale era ciò che gli artisti e il pubblico desideravano sperimentare. Čiurlionis, che aveva in sé il dono della cromestesia, fu in grado non solo di inserirsi nello spirito dell’epoca creando opere nelle quali il colore e la musica dialogavano sottilmente tra loro, ma anche di andare oltre, approdando cioè all’astrattismo. E cosa meglio di un quadro astratto riesce a fare del colore il catalizzatore di significati e di sensi fisiologici ed emotivi?

 

Vasilij Vasil’evič Kandinskij (1866-1944)

Anche il celeberrimo Kandinskij, “padre” dell’arte astratta, da giovane era un simbolista: oltre a dipingere suonava il violoncello e si impegnava attivamente per portare le avanguardie europee nella sua Russia. In tutta la sua ricerca futura, la musica giocherà sempre un ruolo di primo piano: non solo per l’ideale sinestetico appreso dai simbolisti, ma anche per la sua dote personale, la cromestesia. Kandinskij associava ogni colore al suono di uno strumento musicale, e accostava perciò i toni sulle sue tele come per creare una ideale sinfonia. Per lui il giallo suonava con voce di tromba, il blu era un flauto, il rosso era una tuba; l’arancione una campana, il viola una zampogna, il verde un violino; il bianco era una pausa (silenzio musicale), mentre il nero era il silenzio vero e proprio, la fine. Forse nessun altro pittore ha saputo valorizzare la cromestesia a livello teorico e tecnico come fece Vasilij Kandinskij.


Aleksandr Nikolaevič Skrjabin (1872-1915)

Chiudiamo la nostra carrellata con un esempio “inverso” di cromestesia. Skrjabin, pianista e compositore, non si dedicò mai alle belle arti, eppure il senso del colore era per lui prepotente e giocava un ruolo fondamentale nella sua musica. Animo acuto e propenso alle sperimentazioni, Skrjabin arrivò a progettare una tastiera luminosa che fosse in grado di restituire al pubblico i colori che egli vedeva chiaramente nelle sue note. Per Skrjabin l’arte non era fatta di camere stagne nelle quali incasellare ogni disciplina artistica, era piuttosto una grande fontana alla quale ogni creatore, senza distinzioni di sorta, potesse bere. Per lui la musica non era un suono astratto, una voce immateriale, era invece colore, gusto, tatto, vita.

E per chi non prova spontaneamente la cromestesia?

Anche se la cromestesia è un dono innato che solo poche persone posseggono, anche i “normodotati” possono provare ad allargare gli orizzonti della percezione, come facevano ad esempio i simbolisti. Entrare in contatto con la bellezza dei colori e provare a immaginare – “che suono assocerei a questo prato verde?” – “che colore mi evoca il campanello di casa?” – ci aiuta a entrare in modo sempre più personale all’interno dell’universo artistico e a comprendere meglio le nostre opere preferite. In fondo tutta l’arte, che si tratti di musica, di pittura o di scrittura, ha il compito di evocare in noi un sistema di emozioni complesso che non si esaurisce quasi mai negli stimoli “semplici” di un unico senso. Forse siamo tutti un po’ cromesteti, o iniziamo ad esserlo quando la nostra passione per la bellezza ci spinge a penetrare sempre di più nei suoi misteri, cercando di replicare in noi l’emozione che un artista ha nascosto nelle sue opere.

Piccola storia sinestetica

Sebbene io sperimenti la sinestesia soltanto in rare occasioni (come nel caso dei mesi, di cui raccontavo all’inizio), ci sono occasioni in cui le sensazioni fisiche sono così precise e presenti, da segnare alcune scelte.

Springwater è una fantasia che ho recentemente ristampato su tessuto misto seta e lana, nata da un disegno su carta che in origine aveva colori molto accesi, con toni di rosso e arancio, e che ho poi manipola in digitale per ottenere questa palette di beige e verde acqua. Mentre ci lavoravo, mi sono resa conto che le mie sensazioni cambiavano radicalmente: quando la guardo in questa versione, sento sotto i piedi una sabbia finissima e ho l’impressione che i suoni si attutiscano, come quando metto la testa sott’acqua. A seconda del momento, queste sensazioni fisiche sono più o meno forti e, per questo motivo, la considero particolarmente speciale e potente.

Potrebbero interessarti:

arte plumaria del brasile: comunicare a colori
L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

Quando i portoghesi arrivarono in Brasile nel XVI secolo, rimasero subito affascinati dai preziosi e coloratissimi ornamenti delle popolazioni locali: tanto che alcuni dei loro re chiesero espressamente di portare a corte copricapi di piume.
Noi, da occidentali, possiamo apprezzare la bellezza dei colori e la varietà degli ornamenti, ma purtroppo manchiamo della cosa più importante: la comprensione del loro significato.

L’amore per i libri genera arte in modi inaspettati

L’amore per i libri genera arte in modi inaspettati

Interrogo i libri e mi rispondono. E parlano e cantano per me. Alcuni mi portano il riso sulle labbra o la consolazione nel cuore. Altri mi insegnano a conoscere me stesso.

Così Francesco Petrarca, uno dei più grandi poeti e bibliofili italiani, esprimeva il suo amore per i libri: li vedeva non tanto come delle cose, ma piuttosto come delle persone, quasi fossero per lui amici, fratelli, genitori o figli. Chi ama davvero i libri intesse con loro una sorta di patto d’amore e, come è naturale per chi ama, prova anche un po’ di gelosia.

Parliamo di libri, ma da un punto di vista diverso dal solito: il libro come supporto e materiale artistico, al posto della tela, o della creta. Ecco come il geloso amore dei bibliofili per i propri libri è stato capace di originare opere d’arte e, in alcuni casi, di inaugurare generi artistici a sé stanti.

Il libro e l'arte: l'arte della miniatura sui manoscritti - ARTISTANTE

I manoscritti miniati e illustrati

I codici miniati compaiono già nel tardo impero romano e si moltiplicano nel corso del Medioevo. Si tratta di libri in pergamena che venivano impreziositi con figure e decorazioni, oltre ai caratteristici capolettera (la prima lettera della pagina, in formato grande e finemente decorata). I materiali classici della decorazione erano l’oro e l’argento, ma più tardi si aggiunsero anche pigmenti più comuni. Libri di questo genere sono presenti in tutte le culture, non solo in quella cristiana, ma anche in quella islamica e cinese. 

Potremmo pensare che tale preziosità derivi dal fatto che molti di questi libri erano testi sacri, Bibbie o Corani. Beh, non è sempre vero. A partire dal ‘200, sempre più testi profani iniziarono a essere copiati in preziose edizioni miniate: e cosa non è questo, se non una dimostrazione d’amore da parte dei bibliofili per i loro testi preferiti? 

Dobbiamo considerare che i libri, all’epoca, avevano un costo esorbitante: nel ‘400, poco prima dell’invenzione della stampa, un antifonario copiato, miniato e rilegato costava pressappoco quanto lo stipendio annuo di un professore universitario e valeva ben più di una casa di campagna. I manoscritti miniati, come potrete allora immaginare, non seguivano certo una filiera prodotto-negozio, ma andavano commissionati direttamente dal bibliofilo. Quando questo accadeva, il committente aveva sicuramente già letto il libro: quel che chiedeva non era una nuova lettura, ma piuttosto una copia “in bella” da conservare (oltre che da esibire agli amici). 

Ripeto: cos’è questo se non amore?

Volete anche voi fare un tuffo nelle miniature? Ecco un link prezioso: qui troverete moltissimi manoscritti da sfogliare ammirare.

Pittura sul borde dei libri, storia dell'arte, Martine Froste -ARTISTANTE

La pittura: non solo sulle copertine

Chi di voi non ha mai prestato un libro e poi non se lo è più visto restituire? Ecco spiegato perché i bibliofili sono in generale restii a prestare le proprie “creature”; ecco spiegato anche perché, fin da tempi remoti, sono stati inventati dei modi più o meno segreti per personalizzare i libri, in modo da rendere riconoscibile il loro proprietario.

Uno dei modi per decorare i libri, oltre a intervenire sulle pagine interne o sulla copertina, è la pittura sul bordo, ossia sul taglio delle pagine. Questa tecnica fu inventata in epoca medioevale, ma dopo l’invenzione della stampa divenne un vero e proprio fenomeno di moda, tanto più quando, intorno al ‘700, i soggetti dipinti sul taglio delle pagine divennero a scomparsa: invisibili a libro chiuso, questi disegni si svelano soltanto se si imprime una curvatura particolare alle pagine scritte. 

All’origine di questa pratica, come di tante altre, c’è una leggenda: la leggenda del re bibliofilo.

Si racconta che re Carlo II d’Inghilterra (1630-1685) avesse un’amica alla quale era solito prestare i suoi libri: purtroppo, la nobildonna dimenticava spesso di restituirli, tentando anche di far passare certi volumi per suoi. Fu così che il re, riprendendo l’antica arte della pittura sul bordo, rese i soggetti impressi sul taglio dei suoi libri “invisibili”. Questo sarebbe stato un modo per rivendicare l’appartenenza dei volumi non restituiti, senza che la duchessa cui li prestava si accorgesse del trucco.

Infatti, secondo la leggenda, accadde una volta che la donna cercò di far passare un tale libro, prestatole dal sovrano, per suo. Il re, piegando in un certo modo le pagine del volume, fece comparire agli occhi increduli della duchessa lo stemma regale, impresso a scomparsa sul bordo delle pagine. Lei, credo, morì di vergogna. 

Pittura sul borde dei libri, storia dell'arte, Martine Froste -ARTISTANTE

Martin Froste e il fore edge painting oggi

Oggi non sono molti gli artisti artigiani che si dedicano ad impreziosire il volumi con questa affascinante tecnica. Uno dei pochi è Martine Froste, l’artista inglese che ha il merito di portare avanti l’antica pratica del fore edge painting. I suoi disegni sono un connubio di antiche tecniche, stile classico e soggetti anche moderni. Vi consiglio di approfondire, vale la pena conoscerlo.

Ecco dove:

Gli ex libris: il marchio personale di amore e gelosia

L’ex libris è il vero marchio del bibliofilo e, a differenza di altri segni di appartenenza che non sono più attuali, oggi viene ancora usato largamente. 

Si tratta di un timbro da apporre sulle prime pagine di un volume e serve a indicare il nome del suo proprietario. L’esempio più comune di ex libris è quello che si può trovare sui volumi appartenenti alle biblioteche: un semplice timbro indica il nome della biblioteca ed eventualmente il suo indirizzo o numero telefonico. 

Ben diverso è il caso degli ex libris d’arte, che sono poi la vocazione naturale di questo particolare strumento: non si tratta solo di indicare che il libro è di una tal persona (basterebbe scrivere il nome a penna, per questo) ma anche di rappresentare qualcosa di più ideale. L’ex libris è di fatto un modo che il bibliofilo ha di comunicare con il mondo, esprimendo se stesso e facendo della sua biblioteca una vera opera d’arte.

L’ex libris personalizzato contiene di solito un motto o un’immagine scelta perché particolarmente significativa per il proprietario. Fra i primi ex libris d’arte giunti a noi, c’è quello nato dalla passione idealistica di un bibliofilo e dall’abilità di un artista: è quello creato da Albrecht Dürer (1471-1528) per Hieronymus Ebner. L’immagine contiene una raffinata illustrazione con degli stemmi nobiliari, il nome del committente e un motto: “Dio, mio rifugio”.

Approfondisci qui la storia degli ExLibris

ex libris personalizzato, un'opera d'arte in miniatura per personalizzare la tua collezione di libri

L’Ex Libris ebbe fortuna come genere artistico, tanto che in tempi recenti il collezionismo legato a queste piccole immagini è diventato dilagante. L’idea di collezionare ex libris è ritenuta dai bibliofili più radicali, come Egisto Bragaglia e Giancarlo Nicoli, uno snaturamento della loro funzione. Questi autori hanno recentemente pubblicato un “manifesto” per il ritorno dell’ex libris alla sua funzione originaria: marchio personalizzato che descrive il rapporto intimo tra una persona e i suoi libri del cuore.

➝ Sapevi che qui puoi ordinare il tuo Ex Libris su commissione?

Rovesciamento di termini: i libri d’artista

L’arte figurativa e i libri hanno avuto per secoli un legame così stretto che non dobbiamo stupirci se a un certo punto sono comparsi dei libri senza testo che si propongono di per sé come oggetti d’arte. Sono volumi nei quali tecniche pittoriche di diverso tipo prendono il sopravvento, annullando o comunque sottomettendo la dimensione della parola e riempiendo ogni spazio di pura immagine.

L’idea del libro d’artista ha ancora più senso e più significato nei nostri tempi moderni, in cui il mondo dell’editoria si è fatto industriale, i libri “preziosi” sono sempre più rari e le case editrici puntano su edizioni economiche tutte uguali. La nascita dei libri d’arte mi fa pensare a un’intenzione degli artisti di tornare su uno spazio che per secoli è stato per metà degli scrittori, certo, ma per metà anche loro.

Qui entrano in gioco un altro tipo di amore nei riguardi del libro, un’altra gelosia: non più quella del bibliofilo che ama le parole scritte, ma quella del pittore che ama la materia e le sue possibilità. Carta, cartoncino, un po’ di colla e filo e del colore: questi i materiali poveri e quotidiani che possono essere la base di partenza per creazioni di grande valore artistico.

Uno dei primi libri d’artista moderni fu creato da un personaggio molto particolare, sia poeta che pittore: William Blake (1757–1827), il quale scrisse, illustrò e rilegò le sue Songs of Innocence and of Experience in un volume davvero unico. Lì la parola e l’immagine si completavano, avevano la stessa importanza. 

Il libro come opera d'arte: il libri d'artista nella storia dell'arte - ARTISTANTE

Le avanguardie e il libro di artista

Il fenomeno esplose davvero quando entrarono sulla scena le avanguardie: il Futurismo, il Surrealismo, il movimento Dada: tutti questi gruppi artistici seppero fare dell’oggetto-libro un’esperienza unica, non solo sul piano visivo ma spesso anche sul piano tattile. Crearono volumi polemici, satirici, ironici, sognanti, i quali aprendoli e scorrendoli si trasformavano in esperienze personali, quasi in micro-performance artistiche destinate a un solo lettore. Queste idee innovative sono state poi riprese dalle generazioni successive e dalle neo-avanguardie successive agli anni ’60.

Libri d’artista oggi: non solo carta

Ad oggi non capita così raramente che un museo italiano organizzi mostre completamente dedicate al libro d’artista, o che annoverino nelle loro collezioni alcune di queste opere, che non sempre sono fatte di sola carta. 

Forse perché il libro è di per sé un contenitore, la sperimentazione contemporanea lo ha manipolato fino a scomporlo e ricomporlo con materiali misti, che suggeriscono una storia nella storia.

È il caso dei libri di Filippo Biagioli, tra cui il bellissimo Leggendario della Valnerina, realizzato per il Museo della Canapa di Sant’Anatolia di Narco. Le leggende illuastrate non sono scritte, ma ricamate sulla canapa, mentre la copertina è di legno. Godetevi qui il cortometraggio per  scoprire i dettagli della lavorazione.

Filippo Biagioli Museo della Canapa: il libro è un'opera d'arte ARTISTANTE

Potrebbero interessarti:

arte plumaria del brasile: comunicare a colori
L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

Quando i portoghesi arrivarono in Brasile nel XVI secolo, rimasero subito affascinati dai preziosi e coloratissimi ornamenti delle popolazioni locali: tanto che alcuni dei loro re chiesero espressamente di portare a corte copricapi di piume.
Noi, da occidentali, possiamo apprezzare la bellezza dei colori e la varietà degli ornamenti, ma purtroppo manchiamo della cosa più importante: la comprensione del loro significato.

YInMn: un giorno e una notte con il blu del millennio

YInMn: un giorno e una notte con il blu del millennio

La scoperta del nuovo blu

Vi ricordate il mio entusiasmo per la scoperta del nuovo blu? Da quando ho saputo della scoperta, nel 2014, del blu YInMn non ho fatto che pensare che si tratti del colore del millennio, principalmente per due ragioni. Intanto, anche in foto il colore mi sembrava eccezionalmente ricco e avvolgente: molti lo confondono con il blu di Yves Klein, che però non è un nuovo pigmento, è solo una miscela di cobalto e oltremare, con una speciale vernice. Secondo, a differenza degli altri pigmenti chimici, il nuovo blu è atossico. 

YInMn blue, il blu del millennio: recensione artistica dell'edizione limitata Schmincke - Paola Vagnoli

Blu YInMn in edizione limitata

Ho letto molto sull’argomento e ne ho parlato anche con voi, rimanendo in attesa della possibilità di vederlo dal vivo. Finalmente, la Schmincke, una delle mie marche preferite per il materiale artistico, ha reso disponibile un’edizione limitata di acrilici e di colori ad olio: piccole quantità, costi esosi e difficili da trovare, ma non potevo arrendermi. Sono finalmente riuscita ad acquistare un tubetto su un sito inglese e in questi giorni l’ho potuto finalmente sperimentare, ma, soprattutto, vedere con i miei occhi.

YInMn blue - recensione dell'edizione limitata SCHMINCKE - Artistante

“La regola del blu”, la mia prima opera con il blu YInMn

Ho scelto una tela di piccolo formato, 30×30 cm, e mi sono fatta coraggio. Vista la rarità e il costo del tubetto, so che non avrò a disposizione tante altre occasioni, almeno finché il blu YInMn non sarà finalmente in commercio con una produzione industriale a prezzi convenienti, cosa che succederà sicuramente, ma nessuno sa dire di preciso quando.

Carica di aspettative, ho aperto il colore per la prima volta e ne ho spremuto una nocciolina direttamente sulla tela.

Ricorda davvero molto il blu di Klein, ma racchiude una nota di rosso che lo rende ancora più ipnotico. Ho pensato pensato subito che Kandinskij lo avrebbe amato e che sarebbe stato l’ossessione di Matisse.

Ho iniziato colorando una porzione di tela, spargendolo con il pennello. Alla prima stesura, la consistenza, piuttosto liquida, crea uno strato non del tutto coprente. Non c’è bisogno di diluirlo con acqua o altro medium. Ho aspettato che il primo strato asciugasse per dare una seconda mano e, a questo punto, compattato il colore, l’ho guardato asciugare. A differenza di altri pigmenti, non cambia affatto dopo l’asciugatura: rimane brillante esattamente come appena steso, ancora umido. Se vi sembra bello in foto, tenete conto che dal vivo è anche più particolare: un colore così saturo è una vera rarità.

Blu YInMn e blu di Kein a confronto

Ho dipinto di blu il soggetto principale del disegno, un grosso felino nell’atto di afferrare un bue, e ho richiamato il colore su alcuni dettagli, soprattutto in una porzione di cielo stellato. Si può dire un bestiario in azione, una scena di caccia e supremazia. La belva brilla di un colore intenso e definitivo, mentre la preda è di un cangiante beige, bianco, giallo, neutra e passiva.

Soddisfatta dell’accostamento dei colori, soprattutto tra blu e dorato, ho affiancato una seconda tela a formare un dittico.

Qui puoi vedere e acquistare i due quadri:

Arte primitivista e YInMn Blue - quadri in vendita Paola Vagnoli Artistante

Conclusioni sulla prima esperienza con il blu YInMn

Non sono riuscita a “staccare”: la sessione di pittura è durata tutto il giorno e parte della notte, cose che non succedeva da un po’.

Mi è avanzato molto colore, perché bastano due strati per compattare alla perfezione la consistenza del blu YInMn della Schmincke. Sono felice quindi di avere a disposizione un’altra possibilità di esprimermi grazie a questo splendido pigmento, talmente bello che sembra quasi di barare: troppo facile creare qualcosa di bello!

Vuoi acquistare la Regola del Blu #1 e #2? Visita la galleria!

Blu YInMn e blu di Kein a confronto

Il mio omaggio al Blu del Millennio

DIPLART Unisex Bluissima

Non è ancora possibile utilizzare il blou YInMn per la tintura dei tessuti. La speranza, però, è che in futuro si faccia più intensa la ricerca in questo senso, affinché si possano produrre colori brillanti, con il minimo impatto sulla salute dell’uomo e dell’ambiente.

Il mio omaggio su tessuto, un bellissimo misto seta-lana, è un blu che ho ottenuto grazie ad una miscela di colori in quadricromia, con un’impregnatura dosata ad arte per rimenere brillante sul tessuto, con un leggero effetto satinato.

40,00

Esaurito

Potrebbero interessarti:

arte plumaria del brasile: comunicare a colori
L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

Quando i portoghesi arrivarono in Brasile nel XVI secolo, rimasero subito affascinati dai preziosi e coloratissimi ornamenti delle popolazioni locali: tanto che alcuni dei loro re chiesero espressamente di portare a corte copricapi di piume.
Noi, da occidentali, possiamo apprezzare la bellezza dei colori e la varietà degli ornamenti, ma purtroppo manchiamo della cosa più importante: la comprensione del loro significato.

La biro: l’invenzione che ha cambiato il modo di scrivere e disegnare

La biro: l’invenzione che ha cambiato il modo di scrivere e disegnare

La penna a sfera sta per compiere un secolo e da almeno settant’anni è popolare in tutto il mondo. Questa invenzione, che ha soppiantato nell’uso comune la vecchia e macchinosa stilografica, non smette mai di mostrarci le sue infinite possibilità. Piace agli scrittori e ai pittori di ieri e piace, soprattutto, ai giovani artisti di oggi. Addentriamoci nella storia della “biro” e nei suoi usi artistici più interessanti.

La lenta nascita della penna a sfera: tutto ebbe inizio con Leonardo

Chi ha inventato quella che tutti, oggi, chiamiamo “biro”? Questo termine è entrato in uso in italiano grazie allo scrittore Italo Calvino, il quale soleva chiamare in questo modo la penna a sfera, riferendosi al nome del suo inventore: László Bíró. Ma la storia di questa invenzione, come di molte altre, non è tanto semplice e lineare come sembra.

Il primo a concepire l’idea di una penna a sfera fu un personaggio a noi molto noto: Leonardo da Vinci, grande scienziato, artista e…scribacchino! Ma ci vollero diversi secoli perché la sua intuizione di un “ingegno scrittoio” a sfera venisse veramente realizzato.

Dopo Leonardo, a inventare la penna a sfera ci provò un americano vissuto alla fine dell’800, tale John J. Loud. Egli ideò la penna e il meccanismo a sfera inchiostrata, ma il suo prototipo aveva un grave difetto: non scriveva sulla carta, andava bene solo per il legno o altre superfici dure. Era quindi del tutto inutile. Così Loud lasciò perdere e si disinteressò per sempre alla produzione di penne. Ma negli anni ’30 un giornalista ungherese naturalizzato argentino di nome László Bíró scoprì il progetto di Loud e provò a migliorarlo.

lazlo-biro-inventore-penna-a-sfera-1945

László Bíró, il papà della biro

Da giornalista, Bíró utilizzava la penna quotidianamente e conosceva tutti i difetti delle tradizionali stilografiche, tanto belle quanto scomode: queste penne lasciavano le mani sempre macchiate di inchiostro e, per di più, erano tutto fuorché economiche. Ebbene, Bíró decise di “inventare” finalmente la penna a sfera trovando il modo di farla funzionare, e ci riuscì grazie all’aiuto del fratello chimico. Questi inventò una formulazione di inchiostro, simile a quello tipografico, che si dimostrò più adatto alla nuova penna. Ecco cos’era mancato a Leonardo da Vinci e a John J. Loud: i loro progetti erano validi, solo la composizione dell’inchiostro era sbagliata!

E così László Bíró (1899-1985), finalmente, divenne ufficialmente il padre della “biro”.

L’invenzione fu brevettata in Inghilterra e Ungheria, ma, allo scoppio della guerra, Biró, di origini ebraiche, fu costretto a fuggire e a rifugiarsi in Argentina, dove la penna a sfera fu perfezionata, prodotta e messa in vendita per la prima volta nel 1945.

La penna originale era in metallo, si comprava ad un costo abbastanza contenuto e poi andava semplicemente ricaricata, finito l’inchiostro, con le apposite cartucce.

Penna a sfera e arte: il brevetto di Biro

Marcel Bich e la rivoluzione di plastica

Ma chi trovò il modo di decretare il successo della nuova invenzione fu l’imprenditore francese Marcel Bich, il quale acquistò il brevetto da Bíró e fondò la società, ancor oggi molto famosa, detta Bic. La sua idea era semplice: usare la plastica per fabbricare penne così economiche da poterle gettare via quando esaurite, senza doverle mai più ricaricare. Oggi sappiamo che l’usa e getta è meno conveniente di quanto sembri, ma all’epoca fu una rivoluzione.

Oggi, biro e bic sono nella nostra lingua dei perfetti sinonimi di “penna a sfera”. Tanto è stato il successo dei primi avventurieri della “nuova scrittura”! Un successo che, precisiamo, non sembra destinato a tramontare neppure nell’era degli smartphone e dei computer. Rispetto al passato scriviamo sempre meno, eppure in casa o in ufficio non può mai mancarci un set di biro per appuntare numeri di telefono, spese da fare o fugaci pensieri poetici.

Storia della penna a sfera, la BIC

Un nuovo modo di disegnare e progettare

Immediata e sempre pronta, la penna a sfera inaugura un nuovo rapporto tra idea e realizzazione creativa. Fra i primi a intuirlo fu Giacometti.

Giacometti, storia della penna a sfera nell'arte

Alberto Giacometti (1901-1966)

Il famoso pittore, scultore e incisore svizzero affermò una volta: “di qualsiasi cosa si tratti, di scultura o di pittura, è solo il disegno che conta”. Questa sua fede nel disegno, non certo scontata, lo portò a realizzare moltissimi schizzi e opere su carta (ritratti, manifesti…), a volte utilizzando come “pennello” proprio la penna biro. In lui è particolarmente evidente l’importanza dell’immediatezza, quel rapporto istantaneo tra idea ed espressione che solo la biro può garantire. È l’inizio di un nuovo metodo di pensare e progettare l’opera.

La biro al posto del pennello: l’arte si fa con tutto

Alcuni potrebbero pensare che il mezzo in sé sia limitante, utile solo per bozze e schizzi, per prendere appunti preliminari e non per l’Arte con la A maiuscola, ma ecco una breve e assolutamente non esaustiva lista di cose da vedere per ricredersi.

arte con la bic blu: Mostafa Mosad Khodeir

Mostafa Khodeir

Questo artista egiziano poco più che trentenne è diventato famoso in tutto il mondo grazie al web, dove ha condiviso incredibili opere d’arte iperrealiste realizzate soltanto con l’uso di una semplice biro blu. Khodeir è un vero e proprio virtuoso della Bic e la sua attenzione al dettaglio stupisce particolarmente chi osserva i suoi disegni.
Questo è il suo canale YouTube.

Arte con la penna a sfera enam bosokah

Enam Bosokah

Ecco un altro giovane artista iperrealista che ha fatto della Bic il suo strumento principe. Di nazionalità ghanese, Bosokah raffigura nelle sue opere i volti e i costumi della propria terra, in ritratti che con le loro “ombre” e i loro sguardi penetranti suscitano forti emozioni negli spettatori.
Questo è il suo account Behance

marcello carrà opera disegnata con la penna a sfera

Marcello Carrà

“Datemi una Bic e vi solleverò il mondo”, ha detto di recente l’artista ai giornali. Ed è proprio così, nella misura in cui egli riesce con questo piccolo e semplice strumento a creare disegni complessi, anche di enorme formato. Carrà lavora su due filoni: la rivisitazione in termini attuali di grandi opere del passato e la rilettura concettuale di alcuni tra i disegni più antichi e affascinanti della storia: quelli dei “bestiar”  medievali. I risultati, in termini di “matericità” del disegno e di surrealismo immaginifico, sono davvero incredibili: la biro, con Carrà, smette di essere un limite e diventa una potenzialità. Personalmente, in un panorama popolato da moltissime proposte iperrealiste, trovo nella sua arte uno sbocco verso un mondo davvero senza confini, perché libero dal dovere di cronaca che la rappresentazione della realtà impone.
Visitate il suo sito qui.

Storia dell'arte: l'uso della penna a sfera - Deborah Delasio

Deborah Yael Delasio

Siamo abituati a concepire la biro nera o blu e quindi ad usarla in senso monocromatico, ma Deborah ci insegna che le BIC non hanno neppure questo limite e che sono uno strumento inaspettatamente versatile, anche per chi si esprime a colori.
“Vago nel mio personale labirinto e lascio tracce di me. Disegno con le penne, immagino mondi e provo a farli vivere sul foglio. Nel mio piccolo universo di creature fantastiche c’è il mio sogno di un’infanzia da custodire.”
Ecco il suo account IG.

La biro: minimalista ed economica 

Alcuni tra i più giovani e promettenti artisti che utilizzano la penna biro come strumento d’elezione sono originari di paesi, come l’Egitto e il Ghana dei nostri esempi, che siamo soliti denominare “terzo mondo”. Non è mio intento generalizzare, ma credo che questi giovani siano l’esempio di come si possa fare arte ad alti livelli pur con pochi o pochissimi mezzi a disposizione. 

È l’artista a fare l’arte, insomma, e non i mezzi che ha a disposizione. Anche un semplice foglio di carta e una biro, in mano a chi  è portatore di un pensiero originale, possono diventare arte: dal semplice scrabocchio, che è il germe di ogni progetto, fino all’opera finita, la bic è la protagonista della creatività del nostro tempo.

Oggi la “pittura con la biro” è diventata estremamente popolare sul web, dove giovani artisti condividono e rendono virali le loro creazioni, che possono essere di grande formato oppure minuscole come francobolli.

I tradizionalisti potrebbero avere qualcosa da ridire su uno strumento così “povero” come la biro, ma trovo che il diffondersi dell’arte a penna ci insegni, come diceva l’illustre Giacometti, che ciò che conta è il disegno, nient’altro.

Potrebbero interessarti:

arte plumaria del brasile: comunicare a colori
L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

Quando i portoghesi arrivarono in Brasile nel XVI secolo, rimasero subito affascinati dai preziosi e coloratissimi ornamenti delle popolazioni locali: tanto che alcuni dei loro re chiesero espressamente di portare a corte copricapi di piume.
Noi, da occidentali, possiamo apprezzare la bellezza dei colori e la varietà degli ornamenti, ma purtroppo manchiamo della cosa più importante: la comprensione del loro significato.

Rinascere con il colore: street art e recupero urbano

Rinascere con il colore: street art e recupero urbano

La street art o arte di strada, nata come forma di espressione e di protesta che rasentava i confini del vandalismo, è oggi una vera e propria forma d’arte riconosciuta e talvolta incentivata dalle istituzioni. Il motivo? Grazie ai murales le aree più grigie e degradate delle città, dei quartieri industriali o dei borghi in stato di semi-abbandono possono rinascere dal “basso” e migliorare non solo lo stato dei loro luoghi, ma anche la qualità della vita dei loro abitanti (principalmente grazie al fenomeno del turismo culturale).

In questo articolo ho raccolto alcuni esempi italiani di recupero di zone diversissime tra loro, sotto il segno comune dell’arte di strada. Quindi, al bando la cromofobia! Le città possono essere molto più colorate di come le abbiamo vissute fin’ora. Ecco le prove.

Recupero urbano e street art

Il recupero di quartieri degradati

La rinascita dei quartieri periferici e degradati è una delle missioni principali della street art. Gli esempi in Italia e all’estero sono tantissimi ed è davvero difficile scegliere quale storia raccontare nello spazio ristretto di questa pagina. 

Penso che una delle azioni di riqualificazione più belle e più riuscite sia sicuramente quella che, dal 2010, ha luogo nella nostra capitale, Roma, grazie al progetto MuRo (Museo di Urban Art di Roma) fondato dall’artista David Vecchiato. Questa iniziativa è particolarmente interessante perché ha l’intento di produrre e curare non solo opere site specific, il che sarebbe scontato, ma anche “community specific”, cioè in grado di interagire con la comunità che abita i luoghi scelti per la realizzazione dei murales.

I quartieri che sono stati più interessati dalle attività di MuRo sono quelli della prima periferia est, dove vive una popolazione eterogenea e multietnica: studenti, immigrati, lavoratori, artisti delle più varie discipline, anziani. Questi quartieri così ricchi a livello sociale si sono colorati per risaltare agli occhi del mondo, per far risuonare la loro bellezza anche a chi, dalla “Roma bene”, li guardava tradizionalmente con sospetto.

Ecco allora che il Quadraro e Torpignattara sono diventati dei veri e propri musei a cielo aperto, ricchi di opere di grande spessore artistico realizzate da artisti romani e internazionali. Gli stili sono molteplici, variando dalle opere più “pop” a quelle che richiamano alla dimensione del quadro, perché le varie anime di cui queste comunità si compongono meritavano davvero di essere esposte con poliedricità. MuRo organizza dei tour guidati per mostrare ai romani e ai turisti una città rinnovata dalla street art, in contrasto con un passato in cui la grande massa dei visitatori della “Città Eterna” non si spingeva mai oltre i confini dell’Esquilino. Il messaggio è chiaro: Roma è molto di più di quel che potete vedere visitando il Colosseo e Piazza Navona.

Porto Marghera street art per la rivalutazione dei complessi industriali

Le zone industriali si colorano

La street art trova nelle aree industriali più grigie, anonime e disumanizzanti il terreno perfetto per la propria arte: i grandi muri vuoti dei locali destinati a produrre merci si trasformano nelle tele preferite di chi, più che bulloni o calzature o guarnizioni in plastica, ha interesse a produrre bellezza da ammirare per tutti. 

Il miglior esempio di recupero di un’area industriale lo ritroviamo a Porto Marghera (Venezia), dove nel 2019 è sbarcato il festival internazionale POW! WOW!. Questa rassegna, la più grande del mondo nell’ambito del mural painting, dopo San Francisco, Washington, Albuquerque, Rotterdam, è arrivata anche a Marghera portando i migliori street artist internazionali a colorare i muri del quartiere industriale dietro il porto.

Questo quartiere, che era stato abbandonato, sta tornando produttivo grazie agli interventi di riqualificazione comunali iniziati nel ’98, ma anche grazie al contributo della street art. 

Secondo Christian Sottana, un imprenditore ittico locale che ha contribuito all’organizzazione di POW! WOW! 2019, le opere murali che impreziosiscono i capannoni aiutano a cambiare la percezione che di essi si ha: la zona industriale non deve essere più considerata una periferia, ma un luogo pulsante della città. Qui lavorano circa 1500 persone, vivendo una parte significativa della propria esistenza tra capannoni che sono essi stessi opere d’arte architettonica e che grazie alla pittura sono diventati sempre meno “non luoghi” e sempre più “luoghi” da abitare. Non solo con il proprio lavoro, e cioè con le mani, ma anche con i propri occhi e col cuore.

Street art e recupero urbano - Dozza, Bologna

Interi borghi “rinati” con la street art

In Italia, come forse in nessun altro Paese europeo, possiamo vantare una tale quantità di borghi splendidi sotto diversi punti di vista (paesaggistico, storico, eccetera) che non basterebbero anni per visitarli tutti! Ma sapevate che paesini più anonimi e in passato totalmente dimenticati, se non dai loro pochi abitanti, sono letteralmente rinati grazie alla street art? Raccontiamo solo qualche caso.

Dozza, in provincia di Bologna, è un piccolo centro che si è guadagnato a buon diritto il soprannome di “borgo dipinto”: a cadenza regolare, qui, si tiene la Biennale del muro dipinto, manifestazione che chiama a raccolta street artist da tutt’Italia. Ognuno di loro ha lasciato, anno dopo anno, una traccia di sé sui muri del paese. Diversi sono gli stili, i colori, i soggetti rappresentati dai molteplici autori, ed ecco come in una manciata di anni camminare per le strade di Dozza è diventato esattamente come attraversare una galleria d’arte a cielo aperto. Nella rocca medievale di Dozza, che sovrasta il paese, è presente un Centro di studi sul Muro dipinto, aperto alle visite. Quella che era stata la casa dei nobili del paese nel Medioevo, e poi una sfarzosa dimora del ‘700, è diventata anche il centro propulsore di una nuova arte, quella contemporanea. Il messaggio è chiaro: la bellezza non è più solo per i “signori”, ma deve essere fruibile a tutti.

Orgosolo, in provincia di Nuoro, è un borgo nel quale l’arte contemporanea iniziò a colorare i muri per accompagnare il desiderio di rinnovamento sociale e politico tipico degli anni ’60 e ’70. Uno dei primi murales a comparire tra le strade del paese fu realizzato nel 1975 dagli alunni della scuola media locale per commemorare la liberazione dell’Italia dal nazifascismo, trent’anni prima. La popolazione del paese gradì così tanto questa iniziativa che iniziò a incoraggiare gli artisti a dipingere altre parti del borgo: ne arrivarono così da tutt’Italia e iniziarono a lavorare, esprimendo nelle loro opere messaggi politici e sociali, in particolar modo contro la guerra. Oggi il paese ha più di 200 murales, alcuni dei quali sono omaggi a personalità iconiche del nostro Paese (colpisce l’omaggio al poeta-cantautore anarchico Fabrizio de André). Nel corso degli anni le tematiche delle opere sono un po’ cambiate, non limitandosi solo all’aspetto politico, ma è innegabile che a Orgosolo la street art ha sempre espresso uno “spirito” decisamente coraggioso, non per forza politically correct, non per forza “instagrammabile”. Oggi questo borgo di meno di cinquemila abitanti sperso nell’entroterra sardo, lontano da ogni attrazione marittima e da ogni lusso turistico, è diventato meta di visitatori attratti dall’arte urbana e dall’inesausto spirito pacifista e “socialista” che in essa si respira.

Aielli, in provincia dell’Aquila, è un luogo dove street art e letteratura sono una cosa sola. Avete mai letto un libro su un muro? Ad Aielli potete, perché gli artisti locali si sono impegnati in un’opera complessa e gigantesca: trascrivere sulle pareti di un palazzo l’intero romanzo Fontamara, dall’inizio alla fine. Il libro, dell’autore abruzzese Ignazio Silone, racconta la vita dei contadini di quei luoghi all’inizio del ‘900 e per la popolazione di Aielli rappresenta un viaggio nella memoria, una riappropriazione di sé e del proprio passato. Oltre a quest’opera di trascrizione murale della letteratura, nel borgo è presente un altro documento simile: il “Murales della costituzione italiana”, che riporta anch’esso il testo, in versione integrale, sul muro di uno stabile.

Ma non c’è solo la memoria storica sui muri di Aielli, tutt’altro: c’è anche moltissimo spazio per la modernità e per il colore. Ogni anno nel paese si tiene un’iniziativa chiamata Borgo universo, con eventi dedicati all’arte in generale e alla street art in particolare. Alcuni dei murales di questo paesino di meno di duemila abitanti sono stati creati da noti artisti del mondo della street art e si presentano per questo “innovativi” e coloratissimi. Aielli è un altro esempio di borgo che ha trovato nella pittura murale un impulso per la rinascita artistica e culturale, e quindi anche turistica.

Potrebbero interessarti:

arte plumaria del brasile: comunicare a colori
L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

Quando i portoghesi arrivarono in Brasile nel XVI secolo, rimasero subito affascinati dai preziosi e coloratissimi ornamenti delle popolazioni locali: tanto che alcuni dei loro re chiesero espressamente di portare a corte copricapi di piume.
Noi, da occidentali, possiamo apprezzare la bellezza dei colori e la varietà degli ornamenti, ma purtroppo manchiamo della cosa più importante: la comprensione del loro significato.

Tutto e niente: riflessioni sul colore bianco

Tutto e niente: riflessioni sul colore bianco

Avendo da poco trattato la Cromofobia, non potevo più rimandare una riflessione sul colore bianco. Ne parlerò in generale, sicura che ne nasceranno spunti per innumerevoli approfondimenti. Come sempre, comincerò dalle definizioni.

storia e significato del colore bianco - storia dell'arte

Il Bianco: il non-colore

Tecnicamente, come il nero, il bianco non è un colore, e rappresenta la luce nella sua completezza, l’intero spettro cromatico. Di nuovo come il nero, il bianco assoluto è un concetto astratto, proprio solo della luce solare, ma se lasciamo da parte gli studi di ottica, e passiamo all’utilizzo materico che ne ha fatto l’uomo nell’arte, possiamo considerare il bianco, insieme al nero e a tutte le sfumature delle terre, fra i colori primari della storia dell’arte, a partire dalla pittura rupestre. 

Pochi colori come il bianco sono così densi di significato in tutte le culture umane, che riversano nel candore una quantità incredibile di significati che popolano mitologia e testi sacri di tutto il mondo. 

Facciamo un breve viaggio nella storia del colore bianco, cercando di carpire i suoi significati a partire dall’uso che se ne è fatto nell’arte, in particolare quella moderna e contemporanea.

bianco di biacca, storia del colore bianco ARTISTANTE

Come si ottiene il colore bianco: bianchi antichi…

Il bianco è un colore a dir poco necessario per la pittura, utile non solo come tinta autonoma ma anche per stemperare e ammorbidire altri colori. Ma come si otteneva in passato, quando ancora non esistevano prodotti sintetici e industriali?

Nel Neolitico (10.000-5000 a.C.), il bianco d’ossa si è aggiunto alle ocre e alle terre, che costituivano i colori più immediatamente accessibili all’uomo primitivo. Il nuovo pigmento si otteneva a partire dalle ossa degli animali domestici, che venivano fatte essiccare e quindi impastate con acqua, albume o grasso. La comparsa di questo colore è legata alla nascita della pastorizia e alla pratica di addomesticare gli animali. 

Ma fin dall’antichità, in tempi molto remoti, questo bianco primitivo venne presto sostituito. Dagli albori della civiltà, fino all’800, per ricavare questo colore esistevano solo due modi: a partire dal piombo, macerato per dieci giorni nell’aceto, oppure a partire dal carbonato di calcio, presente in diverse rocce. Il colore ricavato dal piombo si chiama biacca ed è stato per secoli il più utilizzato in assoluto, mentre quello ricavato dal carbonato di calcio si chiama bianco San Giovanni

La biacca è un composto piuttosto tossico, eppure in passato veniva utilizzata addirittura come fondotinta, sia dalle donne dell’antica Atene che dalle romane, e per secoli poi dagli attori di teatro di tutto il mondo. Elisabetta I d’Inghilterra ne era un’appassionata utilizzatrice. Rovinava la pelle del viso, come ci si può aspettare, e provocava non pochi disturbi di vario genere all’intero organismo, ma il fine di apparir belli nella vita o sulla scena giustificava i mezzi. Infatti, non era l’unico cosmetico altamente tossico utilizzato in passato.

Proprio per la sua tossicità, oggi questo composto è in gran parte precluso anche ai pittori: il bianco biacca è definitivamente scomparso dalle tavolozze, se non magari da quelle di qualche restauratore, e il suo uso è vietato quasi in ogni stato fin dal 1921.

bianco di biacca usato come cosmetico - storia del colore bianco - ARTISTANTE

… e bianchi moderni

Intorno al 1840, in ogni caso, era comparso sulla scena un nuovo bianco, destinato a soppiantare quelli antichi: il bianco di zinco, che si ottiene dai vapori dello zinco bruciato e per la sua tonalità tendente al giallo pallido viene anche chiamato “bianco di neve”. Tra la fine del secolo e i primi del ‘900 a questo bianco lanoso, impuro e delicato si aggiunge il bianco di titanio, più spesso e coprente. Questi bianchi sintetici, oltre a migliorare la qualità di pigmenti che come la biacca tendevano a soffrire il passare del tempo, concludono definitivamente l’era dei colori artigianali e aprono la strada ai colori industriali.

Non mi stancherò mai di far notare che “naturale” non significa sicuro, così come “chimico” non equivale a tossico: entrambi, quello di zinco e quello di titanio, infatti, sono pigmenti chimici non tossici.

storia del colore bianco - simbologia del bianco

Il colore più “denso” del mondo: bianco purezza, bianco paura

Il bianco è, in ogni società umana, il colore più denso di significato che ci sia. Le sue valenze simboliche sono tante e tutte legate a significati assoluti, ideali, estremi, quasi ai confini tra l’esperienza umana e quella divina. Infatti il bianco, considerato la somma di tutti i colori o in alternativa l’assenza totale di ogni colore, dà sempre un certo brivido estetico: che sia angelico o che sia demonico, questo brivido, sono state le varie latitudini ed epoche a determinarlo.

Prima di parlare di alcuni di questi significati simbolici, vorrei chiedervi: avete mai provato a vestirvi interamente di bianco? E che cosa è successo quando lo avete fatto? Non spiccavate forse tra la folla, non sentivate forse molti più sguardi addosso rispetto al solito? Non vi siete forse sentiti chiedere quale importante occasione, quale momento di passaggio, quale cerimonia vi stesse aspettando per andarci vestiti così?

Nella cultura occidentale il bianco è da secoli simbolo di purezza, di luce, di bene. È bianca la Vergine Maria (detta anche “l’immacolata”), e per questo sono bianche anche le spose il giorno delle nozze. Bianche erano le tovaglie delle famiglie nobili e le lenzuola del corredo, bianche le camicie della prima notte da sposi, bianche le fasce dei neonati e le lenzuola per le culle. Sono bianche le tuniche dei sacerdoti nelle più grandi solennità e bianco è anche Dio stesso. Nelle fiabe e nelle leggende gli animali mitologici buoni e beneaugurali sono bianchi, come il cavallo alato Pegaso, il cigno, il coniglio pasquale e via dicendo. 

bianco colore del lutto - rituale funebre nel candomble

Nella foto: rituale funebre del Candomblé.
Il candomblé è una religione sudamericana, di origine africana, molto diffusa in Brasile, imparentata con altre santerie, come quelle Voodoo.

Ma il bianco, proprio per la sua potenza e densità, non è sempre e solo un simbolo di pace e di luce. In effetti il bianco è, in molte culture, il colore del lutto, perché le ossa sono bianche e i morti tendono a impallidire. Nei paesi africani il bianco è un colore magico: secondo una leggenda africana in origine il mondo nasce dal bianco, cioè da un’enorme goccia di latte. Ma in molte tribù questa tinta oltre che magica è anche pericolosa e per questo, ancora oggi, gli albini africani sono spesso perseguitati e uccisi: il loro colore li denota come esseri sacri e da sacrificare. 

Un occidentale che ha capito profondamente la potenzialità inquietante del bianco è stato Hermann Melville, autore del celeberrimo Moby Dick, romanzo incentrato sulla caccia ad una terribile balena bianca. Un piccolo capitolo del libro è dedicato interamente al significato del colore bianco: otto pagine densissime che cercano di spiegare, attraverso innumerevoli esempi, l’inafferrabile senso non solo di sublime, ma anche di orrore, che questo colore suscita in noi esseri umani.

Forse, con la sua indefinitezza, la bianchezza adombra i vuoti e le immensità crudeli dell’universo, e così ci pugnala alle spalle col pensiero dell’annientamento mentre contempliamo gli abissi bianchi della via lattea? Oppure la ragione è che nella sua essenza la bianchezza non è tanto un colore, quanto l’assenza visibile di ogni colore e nello stesso tempo l’amalgama di tutti i colori, ed è per questo motivo che c’è una vacuità muta, piena di significato, in un gran paesaggio di nevi, un omnicolore incolore di ateismo che ci ripugna? […] Di tutte queste cose, la balena bianca era il simbolo. Perché allora vi meraviglia questa caccia feroce?

Illustrazione Moby Dick - storia del colore bianco

Nella foto: Illustrazione di Tony Millionaire

Il bianco nell’arte dal neoclassicismo ad oggi

Qual era il colore preferito degli artisti neoclassici? Rispondere è fin troppo facile: era il bianco, che ricordava loro i marmi greci e romani; un’ispirazione e un’aspirazione, una perfezione da copiare. Se solo questi artisti avessero saputo che in origine le statue greche non erano affatto bianche, anzi, erano coloratissime! Non importa: per loro il bianco diventò un colore simbolo, una bandiera da innalzare, e gli stupendi marmi di Canova sono qui per testimoniarcelo.

Ma con il ‘900, il bianco cambia significato, o meglio, si presta ad altre “bandiere” artistiche, altre provocazioni, altre possibilità. Ricordate Kazimir Malevič e il suo Quadrato Nero del 1915, che inaugura l’arte astratta? Nel 1918 Malevič ribadisce il concetto del movimento Suprematista, esponendo il bianco: per la precisione, l’opera ritrae un quadrato bianco, su fondo bianco. Due bianchi diversi, un po’ più sporco l’uno, un po’ più chiaro l’altro. Ma di fatto il dipinto è bianco, tutto bianco, con soltanto quell’impercettibile confine a delimitare un’idea diversa di arte, in cui il concetto e l’ispirazione artistica sono superiori alla rappresentazione figurativa.

Malevic, bianco su bianco - storia del colore - ARTISTANTE

Negli anni ’30 anche il pittore britannico Ben Nicholson si lancia nel mondo del bianco, con opere monocolori nelle quali si possono intuire delle forme solo attraverso alcune parti a rilievo: cerchi e quadrati bianchi che emergono dal bianco. Fortemente influenzato da Mondrian, che conosceva personalmente e di cui era grande amico nonostante fosse più giovane di una ventina di anni, Nicholson esprime un’idea utopica di purezza ed equilibrio, concetti che, a cavallo fra le due guerre, comunicavano l’esigenza di una trasformazione della società. 

Sono gli albori dell’arte concettuale, quella che si fa carico di un’idea da trasmettere, al di là del risultato estetico. La definizione nasce negli anni ‘60, gli anni, per intenderci, di Piero Manzoni e Lucio Fontana.

Piero Manzoni – molti lo ricordano per la celebre Merda di artista – realizza candide tele a rilievo, con bianche increspature irregolari che ricordano lenzuola sprimacciate, onde marine o incrostazioni minerali, intrappolando lo spettatore nella materia che sembra, ma non è. 

Infine, arriva Lucio Fontana, che la materia la supera, andando oltre la tela: la taglia, la buca, e questa tela, cui guardare attraverso è (indovinate un po’?) spesso e volentieri bianca. 

È chiaro che il bianco degli artisti contemporanei non è più quello dei neoclassici: forse per loro questo colore è, più che una purezza perfetta, l’annotazione severa di un’assenza o di un limite. Non un bianco-tutto, quindi, ma un bianco-nulla

Interessante rovesciamento, per un colore così pregno di significati e insieme così inafferrabile, che sembra avere più cose in comune con il nero di quante ci aspetteremmo.

Potrebbero interessarti:

arte plumaria del brasile: comunicare a colori
L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

L’arte plumaria: comunicare a colori con le piume

Quando i portoghesi arrivarono in Brasile nel XVI secolo, rimasero subito affascinati dai preziosi e coloratissimi ornamenti delle popolazioni locali: tanto che alcuni dei loro re chiesero espressamente di portare a corte copricapi di piume.
Noi, da occidentali, possiamo apprezzare la bellezza dei colori e la varietà degli ornamenti, ma purtroppo manchiamo della cosa più importante: la comprensione del loro significato.